Museo Didattico Fiorini

Sopravvissuti al buio

contributo della studentessa Camilla Cavinato Mario classe 1928 e Flavia classe 1933 sono i miei nonni materni.  Nonno Mario il quinto di dieci figli racconta spesso che la guerra era iniziata quando lui aveva solo 14 anni mentre i fratelli maggiori, che erano partiti per difendere la patria, erano stati catturati e portati nelle prigioni in Germania. Fortunatamente, dopo alcuni mesi di prigionia, sono stati liberati e riportati in Italia in condizioni pessime e sottopeso (avevano perso più di trenta chili). Poco dopo fu chiamato anche il padre a Mestre per scavare una fossa che avrebbe impedito così il passaggio dei carri armati nemici.  Ricorda che i suoi genitori avevano una grande fattoria a Noale in provincia di Venezia, la quale permetteva loro di vivere piuttosto dignitosamente. Avevano galline, oche e mucche che producevano beni come latte e carne. Grazie alla vendita di questi ultimi riuscivano quindi a ricavare dei buoni profitti.  Loro, al passare degli aerei,  si nascondevano sempre nei fossi e spesso raccoglievano i bossoli che cadevano dall’alto per poi rivendere il rame in essi contenuto e guadagnare così qualche centesimo. Nonna Flavia, invece, è quella che riporta con più tristezza i ricordi drammatici di quel periodo. Anche lei figlia di una numerosa famiglia, settima di dieci figli, racconta spesso della paura vissuta al passare di ogni aereo. Abitava in una cascina vicina alla ferrovia “Ostiglia” che attraversava le campagne venete, pertanto costantemente bombardata al passare di ogni treno, in quanto utilizzata dalle truppe dell’esercito come punto strategico di collegamento tra l’Italia e gli stati confinanti. Durante le ore notturne gli aerei chiamati “Pippo” sorvolavano le stazioni, in attesa di vedere piccole luci così da poterle bombardare. I loro genitori infatti raccomandavano di spegnere la luce delle candele per evitare che il bagliore rilasciato della fiamma facesse capire loro dove colpirli. Durante la notte per non sentire troppo freddo dormivano, almeno in due persone, su letti di paglia con coperte fatte di piuma o pelli dei loro animali e spesso si trovavano in compagnia di topi che correvano sul tetto del  loro granaio.  Il ricordo più drammatico che ci racconta spesso con le lacrime agli occhi, l’ha vissuto una domenica mattina all’uscita dalla chiesa del paese. Il papà, appena terminata la Santa Messa si era recato in una macelleria per comprare la testa di una mucca per fare il bollito. Mentre si accingeva a tornare a casa con la borsa della spesa e con in braccio il figlio più piccolo, il pilota di un cacciabombardiere sganciò una bomba vicino alla gente raccolta al centro della piazza. L’ordigno, cadendo al suolo provocò un grande vuoto d’aria, facendo sbalzare la gente ovunque. Fu una strage per il nostro paese. Il padre 51enne venne catapultato contro un albero e sbattendo la testa morì sul colpo; il fratellino che era con lui cadde in un fosso, fortunatamente senza riportare gravi danni. Un altro ragazzo del paese fu colpito da una scheggia alla gamba e, amputandogliela, morì dopo due ore dissanguato. Mia nonna, che ai tempi aveva solo 11 anni, visse la tragica perdita del padre proprio sotto i suoi occhi. Una famiglia vicina di casa si prese cura di lei e dei suoi fratelli perché la mamma, incinta del decimo figlio, si sentì male appena appresa la notizia. Durante la notte, al buio, la salma venne caricata su un carro trainato dai buoi e sepolta in fretta e furia per evitare che i tedeschi li vedessero e li bombardassero nuovamente. La stessa notte, nonna mi dice di aver fatto un sogno dove rivide il padre vicinissimo a lei… non si capacitava ancora della sua morte così immediata e inaspettata.  Di lì a pochi mesi, un’altra sciagura colpì la famiglia di orfani: alcuni militari tedeschi arrivarono nella loro casa per perquisirla e stanare i figli maschi da portare in guerra. Questi ultimi erano riusciti a nascondersi nel fieno per non farsi prendere e non abbandonare la propria famiglia, nonostante i militari vi infilzavano forche e fucili. All’interno dell’abitazione però, trovarono coperte e indumenti tedeschi portati a casa da uno zio durante la sua permanenza in Germania. I tedeschi pensarono che stessero nascondendo dei fuggiaschi e così, alle 4:30 di una mattina di primavera, misero tutti i componenti della famiglia in fila per poterli fucilare. Il panico più totale si scatenò non appena le femmine della famiglia furono minacciate di stupro, in quanto in questo periodo i tedeschi imprigionavano giovani fanciulle a scopi sessuali tagliandogli i capelli a zero con l’aiuto di una motosega: una vera e propria tortura. La mamma incinta e provata dalla morte del marito si inginocchiò davanti ai militari, pregandoli di non uccidere lei e i suoi figli. Non conosceva la loro lingua ma piangendo e disperandosi si fece capire in qualche modo. Fu così che i militari le risparmiarono. Era il 18 marzo 1945 e pochi giorni dopo terminarono i combattimenti e fu dichiarata la fine della Seconda guerra mondiale. Il 25 aprile, durante la proclamazione della liberazione, sfrecciarono in cielo gli arerei tricolore, ma la velocità e il rumore di quegli aerei terrorizzavano ancora tutte le persone. Vi furono cioccolato e caramelle in abbondanza per tutti quei bambini che vissero un’infanzia da dimenticare.  Furono anni duri e il ricordo della morte del papà di nonna Flavia non è mai svanito. Ancora oggi lo racconta con voce tremolante e con le lacrime agli occhi. Solo chi ha vissuto sulla propria pelle la guerra, sa il vero valore della pace e della libertà.

Una famiglia di sfollati

contributo a cura dello studente Federico Nobili La famiglia Fontana (i cui membri erano il mio bisnonno Siro, la mia bisnonna Cesira, mia nonna paterna Mara e le sue due sorelle Silvana e Maurizia, ovvero le mie prozie) viveva a Pavia, in prossimità del Ponte Vecchio unico ponte che all’epoca collegava Pavia con i territori che si trovavano sulla sponda opposta del Ticino. Rispetto ad altre zone di Pavia la zona del Ponte Vecchio fu bombardata molto duramente dai tedeschi proprio per la presenza del ponte che, oltre ad essere un mezzo di collegamento da una sponda all’altra, avrebbe potuto essere un punto d’appoggio strategico per gli alleati. Per evitare ciò i tedeschi decisero di bombardare a tappeto la zona, distruggendo la maggior parte delle abitazioni vicine compresa quella della famiglia Fontana. Per miracolo o come lo si voglia chiamare, nessun membro della famiglia fu colpito dal bombardamento tedesco. Questo perché sentendo la sirena suonare, riuscirono a rifugiarsi per tempo all’interno di  un rifugio antiaereo. Una volta uscita dal rifugio la famiglia vide la devastazione causata dal bombardamento e una volta raggiunta la propria casa videro che anch’essa non era sopravvissuta al massacro; quello che una volta era il corridoio pieno di decorazioni che collegava l’ingresso al resto del loro appartamento ora fungeva da facciata dell’abitazione… non era rimasto nient’altro. Persa la loro casa, in qualità di sfollati (questo è il termine che identifica le persone che hanno perso la casa), mia nonna e la sua famiglia ebbero la fortuna (se cosi la si può chiamare) di essere ospitati da una famiglia benestante di Pavia che risiedeva in piazza Petrarca e che aveva la possibilità di mettere a disposizione della comitiva una stanza. Un vivo ricordo che accompagnò mia nonna per una buona parte della sua vita era il profumo di bistecca che proveniva dalla cucina della famiglia che li ospitava. Un profumo così vicino ma al contempo così lontano… questo perché ai tempi di guerra ogni genere alimentare tendeva a scarseggiare o a non essere proprio reperibile sugli scaffali dei negozi. Gli unici modi per procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti era l’utilizzo delle tessere alimentari distribuite ai cittadini per andare a prendere la propria razione giornaliera di pane e acqua, poiché oltre a quello c’era poco altro.  Chi invece aveva ancora qualche possibilità economica era solito ricorrere alla “Borsa Nera” ovvero il mercato clandestino, dove era possibile reperire a prezzi altissimi generi alimentari tra cui carne, latte, e altre leccornie che al di fuori di questo mercato non era neanche possibile poter immaginare di reperire. Un altro aiuto che mia nonna, le sue sorelle ed il resto della sua famiglia ricevettero proveniva da i due fratelli della bisnonna materna Cesira, che vivevano al di furi di Pavia in alcuno paesini limitrofi, dove possedevano piccole coltivazioni con le quali potevano pensare di tirare avanti. Quello che riuscirono a racimolare però, non era sufficiente per vivere. Così la più giovane delle sorelle, Silvana, per riuscire portare a casa qualcosa da mangiare fu costretta a lavorare per i fascisti, come segretaria di un ufficiale del partito. Ciò durò fino alla fine della guerra, quando il regime fascista cadde definitivamente e arrivò la Liberazione da parte di partigiani e alleati. La rabbia rimasta nei cuori dei partigiani e di chi aveva combattuto, perso amici e famigliari  a causa del regime fascista si rovesciò su chi avesse lavorato volontariamente o meno con i fascisti, ma ciò non importava. Gli uomini che avevano collaborato con i fascisti venivano denudati, derisi, percossi  e fatti sfilare per le strade mentre le donne venivano rasate a zero per poi essere esibite per le strade delle città come trofeo. Il bisnonno Siro, per evitare questa tortura a sua figlia Silvana (che fu costretta a lavorare per i fascisti),  temendo e sapendo ciò che i partigiani le avrebbero potuto fare se l’avessero trovata, decise di nasconderla a casa di una sua conoscente fino a quando le cose non si sarebbero calmate. Dopo svariati mesi la famiglia Fontana fu in grado di riunirsi e poter cominciare a ricostruirsi la propria vita non più a Pavia, loro città natale ma nella grande metropoli: Milano.

L’incredibile storia di Sante Mucchietto

Contributo a cura dello studente Gabriele Bessega Sante Mucchietto era un mio prozio. Ebbe una croce al merito per la campagna di Russia. La croce al merito è un riconoscimento militare concesso ai soldati italiani che hanno combattuto onorevolmente per più di un anno in difesa della patria. Per tutta la vita Sante ha tramandato la sua esperienza di guerra, prima ai famigliari, poi ai conoscenti e andando anche nelle scuole, infine ha lascito degli scritti affinché non vada dimenticata con il tempo la dura battaglia affrontata dagli italiani in Russia. Dedicò inoltre una poesia al cane Lilla che l’ha aiutato durante il gelo e la solitudine in Russia (riportato infondo). Sante Mucchietto è nato il 1° novembre 1921 a Mossano, piccolo comune del Vicentino noto quale Paese dei 14 Mulini. È deceduto lo scorso dicembre. Di seguito riporto alcuni passaggi delle sue memorie, che meritano di essere lettere. “Nel 1935 erano tempi molto duri e sia a mezzogiorno che la sera erano contate 13 bocche da sfamare in famiglia. Ero il secondo dei sette fratelli e forse quello che sgobbava di più. Venne l’anno 1939 a farmi diventare giovane di leva, a farmi capire che potevo cambiare mestiere: non dovevo più lavorare al mulino, non sarei stato più di peso alla famiglia e, in certo qual modo, potevo avvalermi degli studi conseguiti anni prima. Il 10 dicembre 1940 fu giorno in cui al Distretto militare lasciai i panni borghesi per rivestire quelli in grigioverde.  Per la mia missione dovevi essere trasferito, aggregato ad un reparto del Corpo di Spedizione Italiano, in Russia (C.S.I.R.). Sono stato assegnato alla 3^ Compagnia. L’attesa della partenza viene colmata da lunghe marce giornaliere ed estenuanti esercitazioni.  Finalmente si parte col treno tutti accovacciati, raggomitolati e si trascorre la notte senza la possibilità di guardarci in faccia, fra il rumore di altri convogli che vanno e vengono fino al sorgere del giorno quando una locomotiva, con un grande scossone, viene a caricare i soldati come caricare la merce umana. Il viaggio dura 31 giorni con soste più o meno prolungate, attese, scambi di precedenza per altri convogli, corse al rilento, e noi soldati lì, con gli occhi rossi, gonfi, avidi di vedere, scrutare paesaggi insoliti, nuovi, pianure distese, casolari sperduti nell’ondulazione dei prati, e macchie d’alberi nelle vastità dei boschi. Arrivammo a Varsavia dove i segni della guerra erano evidenti: edifici sbriciolati, ponti divelti, rottami di ogni genere testimoniano che c’è stata battaglia e più si andrà verso nord più apparirà l’orrore della distruzione. Nessuno venne a dirci che eravamo arrivati alle retrovie del fronte Nord dove con maggior intensità infuriavano i combattimenti e dove tutto era movimento di truppa, di blindati, di automezzi. Si vedevano pure squadre di operaie, le donne del posto, mobilitate, militarizzate dal Reich, obbligate all’abbandono delle loro case, dei figli, allontanate dai loro villaggi perchéé abili, e quindi utili al ripristino delle strade, soprattutto quelle della rete ferroviaria.  Continuammo il viaggio e ci vollero ben quattro giorni per superare la distanza dei 1200 km tra Brest e Kiev. Lungo tutto l’arco del nostro trasferimento, i segni della guerra divennero sempre più evidenti. Lungo la ferrovia il terreno era divelto, cosparso di buche profonde; in vicinanza alla città si vedevano i caseggiati bruciacchiati, distrutti. Ricordo che non potevamo scendere dal nostro vagone e nulla potevamo visitare. Ogni cosa ci era preclusa e così avevamo perso la cognizione del tempo.  Era il 12 luglio del 1942. Il viaggio continua di notte onde evitare possibili attacchi aerei nemici; la visione all’intorno era quasi nulla e solo la flebile penombra delle mezze luci ci permetteva di individuare la pista fangosa che ci portava a Stalino, capoluogo del bacino carbonifero del Donetz, la regione che alcune settimane prima era stata felicemente conquistata in un solo sbalzo in concomitanza con la battaglia per Kharkov. Tra sobbalzi e strattoni, ci lasciavamo alle spalle chilometri e chilometri senza incontrare anima viva. Così passa la notte fino al sorgere dell’alba, quando vinti dalla stanchezza e per la necessità di raffreddare i motori, si dovette fare sosta a ridosso di alcune isbe di un villaggio. Spiccava fra queste il kolkos, una costruzione tipica, fatta di mattoni il cui impasto alla luce risultava fatto con terra, paglia e sterco bovino, il tutto ricoperto di bianca calce.  Si raggiunse Rikovo in pieno giorno, quando il sole picchiava forte e la sonnolenza ci investiva, ma si doveva stare sempre all’erta a guardare all’insù che il cielo fosse libero, pulito, sgombro da quei puntini neri, o meglio da quelle virgole che erano gli “apparecchi” sempre pronti e fulminei a piombarci sopra. Fra una casa e l’altra si notavano costruzioni massicce dove, fra i rossi mattoni, spiccavano le allegoriche effigi della stella rossa con falce e martello.  Partimmo con destinazione Dnepropetrovsk. Erano giorni di calura. Le voci di Radioscarpa che i reparti combattenti della Pasubio avevano raggiunto il corso del fiume Don, quindi erano impegnati in un lavoro di riorganizzazione e d’assestamento. Radioscarpa era il nome utilizzato per identificare i soldati che attraversavano a piedi i territori di guerra per portare informazioni dal campo base ai soldati sul fronte. Nelle pause giornaliere era necessario spogliarsi, mettersi a torso nudo per vincere il caldo, ma soprattutto per spidocchiarsi. In tutta la zona, dal Dniepo al Volga, fra la popolazione era infatti persistente un’infestazione di pidocchi. Per evitarne il contagio, si doveva stare lontani dalla gente. Tutti li avevamo addosso. Era diventata cosa divertente scherzare quando qualcuno, alla prima pozzanghera, al primo acquitrino, si lavava e strizzava i panni. Ma la cosa più curiosa, ridicola, era, attraversando i villaggi, vedere come quelle “babushki” (nonnine) davano la caccia ai pidocchi. Era veramente penoso, ma anche questo faceva parte della guerra. Un giorno dovevamo attraversare un ponte quando due aerei da caccia presero di mira l’ultimo mezzo della colonna e in un paio di tornate lo fecero saltare con tutto il carico. Noi soldati ci eravamo sparpagliati, pancia a terra, e pregavamo il buon Dio che ci scampasse

Da un’altra angolazione: la storia di Wolfgang Schulze

Contributo dello studente Patrick Schulze I miei nonni paterni sono tedeschi, nati e cresciuti durante la Seconda guerra mondiale in Germania, ma si sono trasferiti in Italia nel 1959. Mio nonno è nato nel 1932 nella Germania dell’ovest, era un ragazzo durante la guerra, ma il tempo e le emozioni hanno corroso le memorie e quello di cui si ricorda ancora è poco. Mia nonna invece, nacque nel 1941 nella Germania est, più precisamente nella Prussia (alla fine della guerra farà parte della Polonia), e quindi non si ricorda quasi nulla di quel periodo. Nonostante ciò, sono riuscito a parlare con loro e mi hanno raccontato di eventi o situazioni particolari che ricordano per darmi un’idea della situazione della Germania durante e dopo la guerra.  Alla fine della guerra Wolfgang (mio nonno) aveva 14 anni, e i soldati tedeschi facevano ritorno dai campi di battaglia. Il padre di Wolfgang andò in guerra in Russia, ma non fece mai ritorno; non si sa cosa sia successo, se sia morto in guerra o durante il viaggio di rimpatrio, non c’era nessuna notizia a lui relativa, questa era l’unica cosa certa. Wolfgang, quindi, si sedeva ogni giorno su un muretto che affiancava la stazione e guardava come decine e decine di soldati passavano e si incamminavano verso casa, verso le loro famiglie, i loro amati e i loro amici. In mezzo a quel fiume di uniformi, cappellini e borsoni, sperava di riconoscere la faccia familiare di suo padre; ma i giorni e le settimane passarono, i soldati diminuivano, ma non vide mai più il volto così tanto atteso.   La parte più straziante per la madre di Wolfgang furono però i mesi a seguire: non giunse mai notizia se il marito fosse vivo o no, e per mesi lei non era né moglie, né vedova; questo significava che ella non riceveva alcun tipo di assegno per vedove. Tale situazione continuò per sei mesi finché il marito non dichiarato caduto.  Anche il padre di Karin (mia nonna) cadde in guerra, anche se non si ricorda bene come, dal momento che aveva solo quattro anni quando giunse la notizia. Alla fine della guerra però i russi avanzarono verso ovest e presero anche la Prussia; i soldati russi non sembravano avere pietà di nessuno nella loro avanzata in terra tedesca. La madre di mia nonna, vedova, fu violentata da uno di questi soldati, e rimase incinta di un bambino. Questo bambino però nascerà nella Germania Ovest, visto che quando arrivarono i russi, ai prussiani vennero date due possibilità: di trasferirsi nella Germania dell’ovest e rimanere tedeschi o di restare là dove abitavano e diventare polacchi. La madre di Karin, incinta, decise di andare in Germania.  Il viaggio fu devastante, i fuggitivi emigrarono nei Fiehwagen (i vagoni di legno dei treni di solito utilizzati per il trasporto di animali) e sedevano e dormivano sul fieno, uno quasi sopra l’altro per giorni, con delle rare fermate. Nonostante la pesantezza, erano contenti di avercela fatta, anche se non era raro che gli aerei alleati bombardassero i treni di trasporto con dentro gli emigranti. Una volta giunta in Germania andò ad abitare in una famiglia che era obbligata dallo stato ad accogliere coloro che accorrevano dalla Prussia. Dopo la fine della guerra, però, venne data possibilità agli ex prussiani di visitare le loro vecchie case; là Karin rivide la cascina della sua famiglia, maltenuta ora da un contadino polacco, e quando gli venne detto chi erano quei visitatori, le lacrime gli coprivano le guance e si scusò alla famiglia di Karin, come se fosse un criminale; il senso di colpa lo invase, colpa perché anche lui era stato obbligato dai russi a vivere là e non aveva altra scelta. Infine, regalò un cestino di uova e si scusò nuovamente.  Durante la guerra e il dopoguerra la fame e la mancanza di provviste colpì tutta la Germania. I miei nonni si ricordano ancora bene di come il cibo era razionato e ogni famiglia aveva il permesso di comprare una quantità limitata di burro, pane, zucchero o qualsiasi alimento. Mio nonno si ricorda di come sua madre accendeva il fornello e metteva la pentola, le lacrime le ricoprivano il viso e non sapeva cosa fare da mangiare ai suoi quattro figli. La madre di Karin invece portava con sé lo zucchero e il pane quando usciva di casa per evitare che i figli, con le ginocchia gonfie di acqua per la fame, lo mangiassero mentre era via. Karin si ricorda anche di come le sue scarpe fossero diventate troppo piccole da tempo, ma le indossava comunque con la punta tagliata e le dita scoperte. I miei nonni fortunatamente vissero in paesi piccoli che non erano presi di mira dai bombardamenti quanto le grandi città, comunque hanno avuto delle esperienze ravvicinate con degli attacchi aerei; Wolfgang e suo cugino una volta stavano andando in stazione e da lontano sentirono degli aerei militari avvicinarsi, si nascosero lì vicino e poco dopo sentirono gli aerei sparare sui treni in stazione. Spesso durante la notte Wolfgang veniva svegliato da sua madre per correre nel bunker quando si sentivano gli aerei passare e stavano lì per la notte, senza sapere se gli aerei bombardassero o se fossero solo di passaggio. Un’ altra volta invece fu gettata una bomba a vuoto non lontano dal paese e l’ordigno distrusse le finestre del ginnasio dove studiava Wolfgang. Dopo il bombardamento fu costretto ad andare a piedi in un’altra scuola, distante cinque km. Spesso Karin e altri ragazzi andavano nei boschi a raccogliere le more per rivenderle per qualche soldo o qualche litro di latte e, ogni volta che uscivano, i genitori tremavano perché nei boschi c’erano ancora le mine a pressione lasciate dalla guerra che potevano sempre esplodere. Anche Wolfgang si ricorda come per guadagnare qualche soldo sua madre facesse tanti chilometri per andare a vendere oggetti vecchi al mercato delle pulci: quando tornava a mani vuote, andava lui con tutti gli oggetti a una fattoria per poterli almeno scambiare

Diario di guerra del Serg. Luigi Nazari

Analisi a cura di Alessandro Pinti Luigi Nazari era un mio prozio. Già in passato avevo sentito parlare di lui, quando mi sono state raccontate le avventure avvincenti da lui affrontate; qualche volta ho visto le sue foto e alcuni filmati nei quali già emergeva la sua personalità forte e decisa. Tutto il materiale riguardante la sua storia, compreso il suo diario di guerra che mi accingo a riportare in queste pagine con opportune annotazioni, è stato conservato dai figli di Luigi, in particolare dal più grande dei quattro, Piermario, che gentilmente mi ha messo a disposizione tutto quello che serviva per svolgere questo lavoro.  Ho pensato che il suo diario fosse particolarmente interessante da rendere disponibile sul sito del Museo Didattico Digitale della mia scuola perché può essere considerato un vero e proprio documento storico. Il pluridecorato Maresciallo Pilota di caccia Nazari, infatti, ha raccontato le vicende di cui è stato protagonista in modo lucido e razionale senza mostrare una partecipazione emotiva diretta che avrebbe inevitabilmente trasformato gli eventi narrati proiettandoli in una prospettiva soggettiva, sminuendo così loro il valore e la loro validità  da un punto di vista storico: il lettore che analizzerà le prossime pagine non deve aspettarsi la narrazione personale di eventi di guerra quanto piuttosto la loro sintetica trascrizione, priva di commenti o di sentimentalismo. L’autore di queste memorie descrive con precisione le operazioni militari alle quali ha partecipato e ha voluto affidare a una scrittura minuziosa, ma avvincente e interessante, la memoria delle azioni da lui svolte in un contesto storico molto complesso e articolato. Penso possa essere una preziosa occasione per i lettori quella di poter sentire, attraverso queste pagine, la voce di chi effettivamente era presente ai grandi eventi storici di cui si legge nei manuali scolastici. Nelle pagine troviamo il racconto del drammatico momento della dichiarazione di guerra nel 1940 che avrebbe cambiato le sorti e la vita di tutti, ma c’è anche il momento dell’annuncio della pace, così atteso; c’è la narrazione dell’“avventura albanese” cominciata per lui il 18 novembre del 1940, e ancora la lunga esperienza in Libia. Possiamo conoscere dalla sua narrazione le caratteristiche tecniche degli aerei pilotati, le strategie militari adottate per portare a termine una missione, le difficoltà e soprattutto i pericoli affrontati ogni giorno. Il diario è caratterizzato da una prosa scarna e lineare ma accurata, propria di chi è abituato ad agire e a guardare la realtà con un certo distacco, senza essere travolto dalla paura o dai dubbi,  perché spesso per salvare la propria vita o quella dei compagni non c’è tempo per pensare. La lettura di questo diario dunque consente anche alle generazioni che non hanno conosciuto la guerra di avere un sorta di cronaca meticolosa di ciò che spesso i libri di scuola tralasciano, ma che pure è fondamentale per capire in modo chiaro e imparziale gli eventi del passato. Mi ha però particolarmente colpito quanto ha sottolineato il figlio Piermario, quando ha ricordato che il padre, pur avendo ricevuto due Medaglie d’Argento al Valor Militare e una Croce di Guerra,  ha tuttavia terminato il suo diario di guerra con due parole che, se riferite a un contesto di guerra, non hanno bisogno di ulteriori spiegazioni : “umiliazioni e amarezze”. Sono onorato di poter ricordare con questo elaborato Luigi Nazari. Buona lettura. 

Cartoline dal fronte: commento ai materiali di Francesco Baraté.

Tra i materiali presenti all’interno del nostro Museo digitale compaiono anche le fotografie di nove cartoline postali provenienti dal fronte, riconducibili al periodo della Prima guerra mondiale, tutte gentilmente condivise con noi dalla famiglia dello studente Francesco Baraté della classe V A Istituto professionale. Le cartoline sono state spedite da due fratelli, Garbolo Severo e Garbolo Paolo, originari di Milano, alla loro famiglia, negli anni 1915, 1916 e 1917.  Paolo Garbolo ha un profilo particolarmente interessante, deducibile dai fogli di congedo e da altra documentazione fornita dalla famiglia e messa a disposizione nel museo: classe 1899, partecipa alla Prima guerra mondiale nel cinquantottesimo Reggimento Fanteria, prima compagnia, con il grado di zappatore, e milita poi nella Resistenza partigiana, 120° brigata Walter Perotti, distaccamento “Cile”, per la liberazione di Milano dal nazifascismo. Garbolo Severo, invece, è attivo nella diciassettesima divisione, ottantunesimo Reggimento Fanteria, quarta compagnia con il ruolo di zappatore.  Al di là dei contenuti delle cartoline, che si presentano come brevi accenni allo stato di salute dei due soldati, ciò che a nostro avviso risulta essere particolarmente interessante è l’apparato grafico delle cartoline, il repertorio di immagini e simboli presenti in esse che comunicano in maniera chiara i capisaldi della propaganda italiana nel corso della guerra. In esse infatti troviamo lunghe file di soldati pronti all’assalto, fieri e coraggiosi, fanti che combattono con forza e che cadono feriti per la patria, con la mano stretta sul cuore e il volto contratto in una smorfia di dolore; troviamo immagini colorate e in bianco e nero, che ritraggono soldati schierati in difesa dell’avamposto sul monte Baldo, e soldati caduti nella neve, cosparsi di sangue, sotto il filo spinato della trincea. Ma si riconoscono anche piccole carte geografiche che riproducono i territori coloniali italiani, Libia ed Eritrea, e immagini rappresentative del terremoto di Messina dell’anno 1908. In una cartolina troviamo una bellissima riproduzione delle stelle alpine, fiore tipico delle Alpi che i soldati stavano difendendo dal nemico sul fronte italiano. Ovunque dominano i colori della bandiera italiana (esempio: nella cartolina del soldato ucciso sulla neve, troviamo il bianco di sfondo, il verde nella divisa del soldato e il rosso nel suo sangue versato) e lo stemma dei Savoia; talvolta compare il ritratto di Vittorio Emanuele III. Brevi canzonette o versi di poesie completano il messaggio di queste cartoline, un messaggio fortemente patriottico e nazionalista,  volto ad ispirare in chi le osserva uno spirito d’amore profondo per la patria e un senso di stima nei confronti del sacrificio che i soldati stanno compiendo al fronte per il bene della nazione. Nessun accenno emerge in queste cartoline al nemico: l’esaltazione del soldato italiano ha il sopravvento su ogni altra immagine.  A cura della classe V A Istituto Professionale 

Radio d’epoca

NOME PROPRIETARIO Christian SolivardiDATA REPERTO 1930 circaTIPOLOGIA REPERTO Oggetto di collezione privataDESCRIZIONE REPERTO Il reperto in questione è una radio risalente agli anni ’30 e appartenente alla famiglia del nostro studente Christian Solivardi. Reperto curato dal prof. Tomas Cipriani

Fisarmonica

NOME PROPRIETARIO Christian SolivardiDATA REPERTO 1940TIPOLOGIA REPERTO Oggetto di collezione privataDESCRIZIONE REPERTO L’oggetto è una fisarmonica risalente ai primi anni Quaranta e appartenente alla famiglia del nostro studente Christian Solivardi. Reperto curato dal prof. Tomas Cipriani

Il caporal maggiore Giovanni Ferrarini

NOME PROPRIETARIO Martina FerrariniDATA REPERTO 1937TIPOLOGIA REPERTO Foto da archivio privatoDESCRIZIONE REPERTO La foto ritrae il caporal maggiore Giovanni Ferrarini, all’età di 20 anni, al distaccamento di alpini di Brunico. Ferrarini osserva le reclute che deve addestrare. Reperto curato dal prof. Tomas Cipriani