Museo Didattico Fiorini

Durante la prima guerra mondiale le donne non hanno avuto un ruolo di primo piano solo nel mondo del lavoro, che per la prima volta le ha viste entrare in azione spesso in sostituzione degli uomini impegnati in guerra, ma anche nel settore dell’assistenza. Molte donne di estrazione borghese e aristocratica organizzano nelle varie fasi del conflitto raccolte fondi in favore dei soldati e delle loro famiglie, applicando le proprio nozioni di economia domestica nell’ambito del supporto a chi è impegnato al fronte. Allo stesso tempo, in prossimità delle trincee e negli ospedali militari, si sviluppa anche l’assistenza in campo medico, nella quale sono coinvolte donne volontarie della Croce Rossa: le crocerossine. Così Giovanni Bertacchi (professore universitario e autore di poesie su temi sociali e umanitari) scrive a tal proposito: “Sola, tu t’immergi dentro il vero dolor di quei conflitti!”. Sono versi dedicati alle migliaia di infermiere volontarie della Croce Rossa che prestarono servizio con generosità assistendo i feriti della Grande Guerra. Esse sono definite “volontarie della pietà” ma anche “angeli degli ospedali” e sono entrare in contatto a tutti gli effetti con il dolore, lo strazio, la morte, le ferite provocate dalla guerra. 

Ogni crocerossina, per poter prendere servizio, era tenuta ad esibire l’autorizzazione rilasciata dal padre, dal marito e dal fratello e doveva partecipare ad un corso (il primo si tenne a Milano nel 1906, successivamente poi a Roma); in questo modo iniziava per loro quella che spesso era la prima esperienza al di fuori dell’ambiente familiare, un vero e proprio salto verso un mondo cruento e pericoloso. Solo alcune di loro avevano già affrontato precedentemente un primo contatto con un’esperienza dolorosa: quelle che avevano prestato soccorso ai terremotati di Messina. 

Esse indossavano una divisa bianca composta da una lunga gonna e un velo e svolgevano diverse mansioni; quella più impegnativa era la cura dei feriti, che andava dal bendaggio della ferita all’assistenza ai medici; le infermiere cercavano sempre di diffondere conforto, accompagnando cristianamente i  pazienti più gravi verso la loro morte, per farli sentire meno soli.
La loro figura è più celebre rispetto a quella delle altre donne presenti nella Grande Guerra, perché erano presenti nelle retrovie, in ambienti caratterizzati da una forte presenza maschile e questa immagine venne sfruttata anche dalla propaganda. Allo stesso tempo, però, al fronte e negli ospedali le donne rossocrociate subivano molto spesso pregiudizi in merito al decoro e alla moralità di tale compito, ma anche scarso rispetto da parte d’infermieri ed ufficiali che non volevano ricevere ordini dalle infermiere. 

Il loro lavoro si svolse non solo nelle retrovie delle trincee ma anche in ospedali da campo e territoriali: ospedali veri e propri, ma anche strutture ricavate in ville e residenze messe a disposizione da famiglie facoltose, oppure vecchi opifici, o scuole e conventi. Gli ospedali territoriali furono in totale 204, con circa 30.000 posti letti; i pazienti curati raggiunsero la cifra di 700.000, con l’impiego di 7320 infermiere. Lavorare all’interno di queste strutture era certamente più agevole per le crocerossine, ma non privo di rischi: spesso questi ospedali si trovavano vicini ai luoghi di guerra ed erano dunque soggetti a bombardamenti (nel corso del conflitto vi furono violazioni nei confronti della neutralità delle ambulanze e del personale sanitario, a volte addirittura catturato e ucciso: tre infermiere italiane – Maria Andina, Maria Antonietta Clerici e Maria Concetta Chludzinska – vennero recluse nel campo di concentramento di Katzenau poiché rifiutarono di abbandonare il loro posto di lavoro dopo la disfatta di Caporetto, rimanendo accanto ai feriti non più trasportabili, per assicurare loro assistenza e conforto fino alla fine; ricevettero poi la prestigiosa medaglia “Florence Nightingale”) e altrettanto spesso in essi le condizioni igieniche erano insufficienti e aggravate dalla presenza di topi e pidocchi. 

Le prime crocerossine arrivarono sul Carso e in Valsugana nel maggio del 1915, al momento dell’ingresso dell’Italia in guerra; secondo le stime più recenti furono circa 1090 quelle impegnate direttamente al fronte, mentre più di 10000 quelle dislocate negli ospedali territoriali, nei convalescenziari, nei treni e navi-ospedale. Alcuni dati parlano di un soccorso assicurato a circa due milioni di persone, tra feriti, malati e prestazioni di semplici cure ambulatoriali. 

Una famosa giornalista dell’epoca, Paola Baronchelli Grosson, racconta in un articolo pubblicato su “Scena illustrata” nell’ottobre del 1915 lo straordinario impegno della Croce Rossa nei vari paesi impegnati nel conflitto: “La parte della donna, nella Croce Rossa, è grande: e tale l’hanno riconosciuta i governi che non hanno esitato a ricorrere ufficialmente al suo aiuto, ad arruolarla come un milite dal quale si esige carità ed assistenza bensì, ma anche disciplina, silenzio, infaticabilità e prontezza. Nella guerra colossale che si combatte da quindici mesi, le infermiere della Croce Rossa hanno potuto dare intera la misura sia del loro valore, sia della loro utilità indiscutibile”. Assistenza, supporto morale, controllo dei farmaci in dotazione, preparazione dei ferri chirurgici, somministrazione delle terapie, riabilitazione: molteplici gli incarichi assegnati a questo esercito di carità. 

Mi soffermo ora su alcune figure di rilievo che hanno colpito particolarmente la mia attenzione. 

Sita Meyer Camperio

Fonda nel 1908 la prima scuola ambulanza della Croce Rossa e nel 1912 del primo ospedale-scuola “Principessa Jolanda” nel quale si sono formate moltissime crocerossine. Impegnata al fronte durante la prima guerra mondiale, a partire dal 1917, stende un diario per raccontare le esperienze vissute durante il conflitto. In particolare descrive il suo arrivo a Sagrado Ospedaletto 75, che era appena stato bombardato: “tutte le ferite sono gravissime nell’ospedale più avanzato del Carso, ove si accolgono quelli che non possono tornare indietro”. Il suo diario termine con il 28 ottobre 1917 dal momento che, con la disfatta di Caporetto, l’Ospedale viene sgomberato; pochi giorni prima Sita annota che: “il momento è gravissimo! Il colonnello Perego viene a dare ordini tassativi per lo sgombero dell’Ospedale con tutti i feriti, gravi e non gravi: le infermiere debbono tornare alla loro base; i militi saranno caricati sulle auto-lettighe con i feriti. Tira un’aria cupa e spaventosa, un’atmosfera di morte; nessuno parla… i feriti, nei loro lettini, aspettano, quasi contenti di essere portati indietro… verso casa… per guarire o morire nelle braccia della loro mamma!”. 

Stella Cillario 

Proveniva da una famiglia benestante, figlia di Luigi Cillario e della contessa Elena Monaco, nonostante l’educazione di stampo ottocentesco lavorava in più settori dell’insegnamento alle opere di carità; nel 1908 si trasferì lontano dalla famigli, a Castoreale in Sicilia, dove si cimenta come crocerossina in numerosi ospedali militari anche in zone di guerra; insegnò materie letterarie e successivamente si applicò allo studio del sistema di scrittura stenografica e del linguaggio Braille, che utilizzò per tradurre varie opere ai cechi dell’Istituto Cavazza di Bologna. 

Il suo percorso di vita è narrato nei suoi appunti situati all’interno del
suo quaderno di memorie intitolato “Un po’ della mia vita” dove possiamo trovare anche cartoline e fotografie. 

Margherita Kaiser Parodi Orlando

È la sola donna sepolta nel cimitero monumentale di Redipuglia, accanto a centomila soldati italiani. Riceve la medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione: “rimasta al suo posto mentre il nemico bombardava la zona dove era situato l’ospedale cui era addetta”. Appena diciottenne, era partita per la guerra con la madre, Maria Orlando Kaiser, e la sorella Margherita: prima sede l’ospedale della Croce Rossa di Cividale del Friuli, poi l’ospedale mobile di Pieris. Si spegne a causa dell’influenza spagnola. 

Lea Busacchi 

Figlia di Alessandro Busacchi, maestro di scuola elementare per quarant’anni. Fin dal 1914 svolse l’attività di infermiera volontaria della C.R.I (Croce Rossa Italiana), come si può notare leggendo “Elenco delle Infermiere Volontarie, iscritte nel 1914” e “La Scuola Infermiere Volontarie di Bologna (1914-1915-1916). Nella vita civile, come il padre, si dedicò all’insegnamento alle scuole elementari di Bologna tra le quali “E. De Amicis”, “L.Zamboni” e “Manzolini”.
Nel giugno 1926 si unì in matrimonio ad Armando Lollini dal quale ebbe un figlio Alessandro. Lea Busacchi morì nel 1965 a Bologna, le sue reliquie si trovano nell’ossario del Cimitero della Certosa di Bologna. 

Valentina Lamesta, cl. V A Professionale

Bibliografia 

Bruna Bertoldo, Donne nella Prima Guerra Mondiale, ed. Susalibri 2015

AA.VV., Il Novecento delle Italiane. Una storia ancora da raccontare, Editori Riuniti Roma, 2001

AA.VV., Donne nella Grande Guerra, Il mulino, Bologna 2014

Paola Baronchelli Grosson, La donna nella nuova Italia. Documenti del contributo femminile alla guerra, Quintieri Milano 1917. 

S. Bartoloni, Italiani alla guerra. L’assistenza ai feriti 1915-1918, Marsilio ed., Venezia 2003

S. Bartoloni, Donne nella Croce Rossa Italiana tra guerra e impegno sociale, Marsilio ed. Venezia 2006

A. Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Mondadori Milano 2014

P. Willson, Italiane. Biografia del ‘900, Ed. Laterza, Bari 2011. 

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