Museo Didattico Fiorini

Contributo a cura dello studente Gabriele Bessega

Sante Mucchietto era un mio prozio. Ebbe una croce al merito per la campagna di Russia. La croce al merito è un riconoscimento militare concesso ai soldati italiani che hanno combattuto onorevolmente per più di un anno in difesa della patria. Per tutta la vita Sante ha tramandato la sua esperienza di guerra, prima ai famigliari, poi ai conoscenti e andando anche nelle scuole, infine ha lascito degli scritti affinché non vada dimenticata con il tempo la dura battaglia affrontata dagli italiani in Russia. Dedicò inoltre una poesia al cane Lilla che l’ha aiutato durante il gelo e la solitudine in Russia (riportato infondo). Sante Mucchietto è nato il 1° novembre 1921 a Mossano, piccolo comune del Vicentino noto quale Paese dei 14 Mulini. È deceduto lo scorso dicembre. Di seguito riporto alcuni passaggi delle sue memorie, che meritano di essere lettere.

“Nel 1935 erano tempi molto duri e sia a mezzogiorno che la sera erano contate 13 bocche da sfamare in famiglia. Ero il secondo dei sette fratelli e forse quello che sgobbava di più. Venne l’anno 1939 a farmi diventare giovane di leva, a farmi capire che potevo cambiare mestiere: non dovevo più lavorare al mulino, non sarei stato più di peso alla famiglia e, in certo qual modo, potevo avvalermi degli studi conseguiti anni prima. Il 10 dicembre 1940 fu giorno in cui al Distretto militare lasciai i panni borghesi per rivestire quelli in grigioverde. 

Per la mia missione dovevi essere trasferito, aggregato ad un reparto del Corpo di Spedizione Italiano, in Russia (C.S.I.R.). Sono stato assegnato alla 3^ Compagnia. L’attesa della partenza viene colmata da lunghe marce giornaliere ed estenuanti esercitazioni. 

Finalmente si parte col treno tutti accovacciati, raggomitolati e si trascorre la notte senza la possibilità di guardarci in faccia, fra il rumore di altri convogli che vanno e vengono fino al sorgere del giorno quando una locomotiva, con un grande scossone, viene a caricare i soldati come caricare la merce umana. Il viaggio dura 31 giorni con soste più o meno prolungate, attese, scambi di precedenza per altri convogli, corse al rilento, e noi soldati lì, con gli occhi rossi, gonfi, avidi di vedere, scrutare paesaggi insoliti, nuovi, pianure distese, casolari sperduti nell’ondulazione dei prati, e macchie d’alberi nelle vastità dei boschi. Arrivammo a Varsavia dove i segni della guerra erano evidenti: edifici sbriciolati, ponti divelti, rottami di ogni genere testimoniano che c’è stata battaglia e più si andrà verso nord più apparirà l’orrore della distruzione. Nessuno venne a dirci che eravamo arrivati alle retrovie del fronte Nord dove con maggior intensità infuriavano i combattimenti e dove tutto era movimento di truppa, di blindati, di automezzi. Si vedevano pure squadre di operaie, le donne del posto, mobilitate, militarizzate dal Reich, obbligate all’abbandono delle loro case, dei figli, allontanate dai loro villaggi perchéé abili, e quindi utili al ripristino delle strade, soprattutto quelle della rete ferroviaria. 

Continuammo il viaggio e ci vollero ben quattro giorni per superare la distanza dei 1200 km tra Brest e Kiev. Lungo tutto l’arco del nostro trasferimento, i segni della guerra divennero sempre più evidenti. Lungo la ferrovia il terreno era divelto, cosparso di buche profonde; in vicinanza alla città si vedevano i caseggiati bruciacchiati, distrutti. Ricordo che non potevamo scendere dal nostro vagone e nulla potevamo visitare. Ogni cosa ci era preclusa e così avevamo perso la cognizione del tempo. 

Era il 12 luglio del 1942.

Il viaggio continua di notte onde evitare possibili attacchi aerei nemici; la visione all’intorno era quasi nulla e solo la flebile penombra delle mezze luci ci permetteva di individuare la pista fangosa che ci portava a Stalino, capoluogo del bacino carbonifero del Donetz, la regione che alcune settimane prima era stata felicemente conquistata in un solo sbalzo in concomitanza con la battaglia per Kharkov. Tra sobbalzi e strattoni, ci lasciavamo alle spalle chilometri e chilometri senza incontrare anima viva. Così passa la notte fino al sorgere dell’alba, quando vinti dalla stanchezza e per la necessità di raffreddare i motori, si dovette fare sosta a ridosso di alcune isbe di un villaggio. Spiccava fra queste il kolkos, una costruzione tipica, fatta di mattoni il cui impasto alla luce risultava fatto con terra, paglia e sterco bovino, il tutto ricoperto di bianca calce. 

Si raggiunse Rikovo in pieno giorno, quando il sole picchiava forte e la sonnolenza ci investiva, ma si doveva stare sempre all’erta a guardare all’insù che il cielo fosse libero, pulito, sgombro da quei puntini neri, o meglio da quelle virgole che erano gli “apparecchi” sempre pronti e fulminei a piombarci sopra. Fra una casa e l’altra si notavano costruzioni massicce dove, fra i rossi mattoni, spiccavano le allegoriche effigi della stella rossa con falce e martello. 

Partimmo con destinazione Dnepropetrovsk. Erano giorni di calura. Le voci di Radioscarpa che i reparti combattenti della Pasubio avevano raggiunto il corso del fiume Don, quindi erano impegnati in un lavoro di riorganizzazione e d’assestamento. Radioscarpa era il nome utilizzato per identificare i soldati che attraversavano a piedi i territori di guerra per portare informazioni dal campo base ai soldati sul fronte. Nelle pause giornaliere era necessario spogliarsi, mettersi a torso nudo per vincere il caldo, ma soprattutto per spidocchiarsi. In tutta la zona, dal Dniepo al Volga, fra la popolazione era infatti persistente un’infestazione di pidocchi. Per evitarne il contagio, si doveva stare lontani dalla gente. Tutti li avevamo addosso. Era diventata cosa divertente scherzare quando qualcuno, alla prima pozzanghera, al primo acquitrino, si lavava e strizzava i panni. Ma la cosa più curiosa, ridicola, era, attraversando i villaggi, vedere come quelle “babushki” (nonnine) davano la caccia ai pidocchi. Era veramente penoso, ma anche questo faceva parte della guerra.

Un giorno dovevamo attraversare un ponte quando due aerei da caccia presero di mira l’ultimo mezzo della colonna e in un paio di tornate lo fecero saltare con tutto il carico. Noi soldati ci eravamo sparpagliati, pancia a terra, e pregavamo il buon Dio che ci scampasse dal pericolo. Ci volle molto a ripartire, con un’unità in meno, frastornati, con il fischio delle pallottole, gli scoppi delle bombe nella testa e le vampate delle mitragliatrici stampate negli occhi. La cosa migliore era non pensarci, affidarsi al coraggio ed alla buona sorte. I Russi avevano battezzato i bersaglieri “kuritsa-soldaty“, soldati gallina, del resto quelli della Torino, col simbolo del toro, erano chiamati “Division Corova” e quelli della Pasubio con il simbolo della lupa erano la “Division Sabaca“. Formavano le componenti del Corpo di spedizione italiano (SIR) attestatesi sul Don per una lunghezza di fronte di 60 km. . . . Sulla strada per Stalingrado incontrammo una lunga fila di prigionieri sotto scorta dei soldati tedeschi. 

Tra i cosacchi vi erano vecchi barbuti che dimostravano una particolare fierezza: con lo sguardo severo, non erano inclini a dialogare; così pure le “babushki” che non amavano farsi vedere e soprattutto badavano che le ragazze non avessero alcun contatto con noi e tutti, dai vecchi ai bambini, calzavano stivaloni tipici di pelle e berrettoni baschi di lana grezza. Dormivo in una isba dove viveva Fiegna, dormivo dietro al camino su una stuoia di molti colori. Nonostante tutto, era funzionale e bastava per sopravvivere. Infatti i giorni grigi, ventosi avevano già cominciato a far sentire il freddo gelido di provenienza siberiana. 

A dicembre la situazione climatica era molto difficile: il freddo ci costringeva a tapparci fra le fragili pareti di paglia di fango di terra e i soldati al fronte erano tappati nei bunker sottoterra come talpe. I giorni trascorrevano veloci ed io già contavo il mio terzo Natale di guerra che era iniziato con un continuo, infernale martellamento d’artiglieria su tutto l’arco del fronte. Un portaordini comunicò di evacuare la zona, distruggere tutto quello che non era possibile trasportare e raggiungere il Quartier Generale. Intanto cominciavano a cadere le bombe. La strada era diventata come un biscione d’esseri umani sospinti a fuggire agli orrori della guerra. 

Generali, Colonnelli, Maggiori ed altri ufficiali: eravamo diventati tutti uguali. 

In tre soldati ci lanciammo di corsa verso la valle del Cerkovo ognuno con una carabina, alla cintola bombe a mano e puntammo su Millerovo, dove, nascosti fra le poche isbe, scorgemmo che avevano trovato rifugio due automezzi della Croce Rossa. Provammo a muoverci, buttandoci a terra carponi, strisciando nel buio. A notte inoltrata, gridai “Italienische Kameraden” per capire se potevamo considerarci salvi, ma i tedeschi ci raggiunsero e ci diedero l’ordine di preparare una trincea di sbarramento. Non pensavamo a niente, né alla fame, né alla stanchezza e tanto meno alle avverse condizioni del tempo, solo a cercare di sopravvivere. Trovammo un automezzo abbandonato e con questo, raggiungemmo un villaggio dove riuscimmo a mangiare patate lessate ed una brodaglia calda di miglio.

Ital’yantsy khoroshiye lyudi”, italiani brava gente, dicevano gli abitanti del posto.

Riprendemmo il cammino e barattammo l’orologio con un cavallo da tiro con una piccola slitta. I chilometri non si contavano, senza incontrare alcun essere, nel silenzio rotto solamente dal monotono sibilare del vento, si procedeva così incitando il cavallo che non doveva fermarsi e ci aiutava con gli zaini. Riposavamo avvinghiati l’uno all’altro, rannicchiati, avvolti nei nostri stracciati pastrani e nella misera coperta.

Trovavamo il cibo offerto di volta in volta dagli abitanti dei villaggi che incontravamo. Arrivammo a notte inoltrata a Voroscilovgrad dove ritrovai delle ragazze che avevo conosciuto sette mesi prima.

Riprendemmo il cammino fino ad incontrare treno che procedeva lento e sul quale siamo saliti.

Si giunse finalmente a Dnepropetrovsk dove fummo rientrati a far parte di una Divisione.

I civili partigiani avevano creato il cosiddetto terzo fronte ed operavano all’interno con atti di sabotaggio su convogli e linee di comunicazione.

Pane nero dalla forma rettangolare e dal peso di 800 grammi, doveva bastare a un soldato per cinque giorni, così pure una scatola di margarina e si aggiungeva una brodaglia giornaliera di kruf o di orzo oltre ad acqua tinta di surrogato di caffè. Dell’ARMIR, l’armata italiana, erano le migliaia di caduti e di prigionieri. 

Il 18 marzo 1943 iniziò finalmente il viaggio di ritorno e del rimpatrio, ma solo dopo 31 lunghissimi giorni e 5.000 chilometri, volse al termine. 

Durante le notti ci sentivamo abbandonati da tutti e colpevoli per essere sopravvissuti… Finalmente il treno fermò la sua corsa a Tarvisio Dogana. Una certa euforia si manifestò: eravamo in Italia e si compiva l’odissea. I finanzieri ci accorsero calorosamente e alcuni di loro ci accompagnarono al piazzale della stazione dove una Compagnia di militari rendeva gli onori di rito al suono della banda e alcune ragazze, con cestini di fiori e sorrisi, festeggiavano il rimpatrio degli ultimi superstiti”.

RICORDO DI LILLA

Russia, inverno-inferno 1942/43

Assai lontano
il tempo
quel tempo
e timidi, increduli, non so
se i giovani d’oggi
siano a cercarlo riscritto
come leggenda di storie
vere, crudeli
e fugaci…
Ma il tempo, quel tempo
io vedo
perché ancora vivo.
L’osservo presente
nel cuore,
e col pensiero io
corro lontano, sì, corro,
corro sui declivi nevosi,
sulle doline, sui ghiacci
del Don,
mentre muta da tempo
tu taci.
Eppure silente, ombra
calda di sogno
tu mi accompagni, tu sei.
Lilla.
Povero nome di cane,
e povera storia
la nostra
ma dolce fantasma
dolce viva memoria
ed è bello sognare sentire
lunghi fili d’oro
il tuo pelo, e ancora posare
scaldare i rattrappiti
miei piedi di fante
quand’era pur guerra
sfamarti….
con quel maledetto
mio doppio soffrire
nelle intemperie
il morso feroce del gelo
e tra l’umile gente
vagando a cercare, baciare
una mano indulgente…
davvero
era guerra sfamarti.
Ma tu,
tu non fosti un cane!
Ancora mi sorge il chiamarti
“Lilla, idì scudà” sù, vieni,
e tu pronta alzavi la testa
fedele, sicura accorrevi
allegra mi offrivi il tuo circo
le bizze gioiose e i dispetti
il gioco del cuore…
Tu no,
tu non fosti un cane!
E sempre, nel tempo rimosso
nell’oggi del tempo
il tuo calore io sento,
io sento di viver la vita
per il tuo grande dono
d’amore….
Lilla,
io chiamo fortuna
l’esser uno tra i pochi
e vederti brillare, giocare
ancora ai miei occhi,
e mentre ti guardo, tu vivi
io vivo, tu vivi
così ogni gelo scompare
di tempo e di storia.
Sì, tu
tu non fosti un cane
ma vita.

Sante Mucchietto

novembre 1995

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