Museo Didattico Fiorini

Sopravvissuti al buio

contributo della studentessa Camilla Cavinato Mario classe 1928 e Flavia classe 1933 sono i miei nonni materni.  Nonno Mario il quinto di dieci figli racconta spesso che la guerra era iniziata quando lui aveva solo 14 anni mentre i fratelli maggiori, che erano partiti per difendere la patria, erano stati catturati e portati nelle prigioni in Germania. Fortunatamente, dopo alcuni mesi di prigionia, sono stati liberati e riportati in Italia in condizioni pessime e sottopeso (avevano perso più di trenta chili). Poco dopo fu chiamato anche il padre a Mestre per scavare una fossa che avrebbe impedito così il passaggio dei carri armati nemici.  Ricorda che i suoi genitori avevano una grande fattoria a Noale in provincia di Venezia, la quale permetteva loro di vivere piuttosto dignitosamente. Avevano galline, oche e mucche che producevano beni come latte e carne. Grazie alla vendita di questi ultimi riuscivano quindi a ricavare dei buoni profitti.  Loro, al passare degli aerei,  si nascondevano sempre nei fossi e spesso raccoglievano i bossoli che cadevano dall’alto per poi rivendere il rame in essi contenuto e guadagnare così qualche centesimo. Nonna Flavia, invece, è quella che riporta con più tristezza i ricordi drammatici di quel periodo. Anche lei figlia di una numerosa famiglia, settima di dieci figli, racconta spesso della paura vissuta al passare di ogni aereo. Abitava in una cascina vicina alla ferrovia “Ostiglia” che attraversava le campagne venete, pertanto costantemente bombardata al passare di ogni treno, in quanto utilizzata dalle truppe dell’esercito come punto strategico di collegamento tra l’Italia e gli stati confinanti. Durante le ore notturne gli aerei chiamati “Pippo” sorvolavano le stazioni, in attesa di vedere piccole luci così da poterle bombardare. I loro genitori infatti raccomandavano di spegnere la luce delle candele per evitare che il bagliore rilasciato della fiamma facesse capire loro dove colpirli. Durante la notte per non sentire troppo freddo dormivano, almeno in due persone, su letti di paglia con coperte fatte di piuma o pelli dei loro animali e spesso si trovavano in compagnia di topi che correvano sul tetto del  loro granaio.  Il ricordo più drammatico che ci racconta spesso con le lacrime agli occhi, l’ha vissuto una domenica mattina all’uscita dalla chiesa del paese. Il papà, appena terminata la Santa Messa si era recato in una macelleria per comprare la testa di una mucca per fare il bollito. Mentre si accingeva a tornare a casa con la borsa della spesa e con in braccio il figlio più piccolo, il pilota di un cacciabombardiere sganciò una bomba vicino alla gente raccolta al centro della piazza. L’ordigno, cadendo al suolo provocò un grande vuoto d’aria, facendo sbalzare la gente ovunque. Fu una strage per il nostro paese. Il padre 51enne venne catapultato contro un albero e sbattendo la testa morì sul colpo; il fratellino che era con lui cadde in un fosso, fortunatamente senza riportare gravi danni. Un altro ragazzo del paese fu colpito da una scheggia alla gamba e, amputandogliela, morì dopo due ore dissanguato. Mia nonna, che ai tempi aveva solo 11 anni, visse la tragica perdita del padre proprio sotto i suoi occhi. Una famiglia vicina di casa si prese cura di lei e dei suoi fratelli perché la mamma, incinta del decimo figlio, si sentì male appena appresa la notizia. Durante la notte, al buio, la salma venne caricata su un carro trainato dai buoi e sepolta in fretta e furia per evitare che i tedeschi li vedessero e li bombardassero nuovamente. La stessa notte, nonna mi dice di aver fatto un sogno dove rivide il padre vicinissimo a lei… non si capacitava ancora della sua morte così immediata e inaspettata.  Di lì a pochi mesi, un’altra sciagura colpì la famiglia di orfani: alcuni militari tedeschi arrivarono nella loro casa per perquisirla e stanare i figli maschi da portare in guerra. Questi ultimi erano riusciti a nascondersi nel fieno per non farsi prendere e non abbandonare la propria famiglia, nonostante i militari vi infilzavano forche e fucili. All’interno dell’abitazione però, trovarono coperte e indumenti tedeschi portati a casa da uno zio durante la sua permanenza in Germania. I tedeschi pensarono che stessero nascondendo dei fuggiaschi e così, alle 4:30 di una mattina di primavera, misero tutti i componenti della famiglia in fila per poterli fucilare. Il panico più totale si scatenò non appena le femmine della famiglia furono minacciate di stupro, in quanto in questo periodo i tedeschi imprigionavano giovani fanciulle a scopi sessuali tagliandogli i capelli a zero con l’aiuto di una motosega: una vera e propria tortura. La mamma incinta e provata dalla morte del marito si inginocchiò davanti ai militari, pregandoli di non uccidere lei e i suoi figli. Non conosceva la loro lingua ma piangendo e disperandosi si fece capire in qualche modo. Fu così che i militari le risparmiarono. Era il 18 marzo 1945 e pochi giorni dopo terminarono i combattimenti e fu dichiarata la fine della Seconda guerra mondiale. Il 25 aprile, durante la proclamazione della liberazione, sfrecciarono in cielo gli arerei tricolore, ma la velocità e il rumore di quegli aerei terrorizzavano ancora tutte le persone. Vi furono cioccolato e caramelle in abbondanza per tutti quei bambini che vissero un’infanzia da dimenticare.  Furono anni duri e il ricordo della morte del papà di nonna Flavia non è mai svanito. Ancora oggi lo racconta con voce tremolante e con le lacrime agli occhi. Solo chi ha vissuto sulla propria pelle la guerra, sa il vero valore della pace e della libertà.

Una famiglia di sfollati

contributo a cura dello studente Federico Nobili La famiglia Fontana (i cui membri erano il mio bisnonno Siro, la mia bisnonna Cesira, mia nonna paterna Mara e le sue due sorelle Silvana e Maurizia, ovvero le mie prozie) viveva a Pavia, in prossimità del Ponte Vecchio unico ponte che all’epoca collegava Pavia con i territori che si trovavano sulla sponda opposta del Ticino. Rispetto ad altre zone di Pavia la zona del Ponte Vecchio fu bombardata molto duramente dai tedeschi proprio per la presenza del ponte che, oltre ad essere un mezzo di collegamento da una sponda all’altra, avrebbe potuto essere un punto d’appoggio strategico per gli alleati. Per evitare ciò i tedeschi decisero di bombardare a tappeto la zona, distruggendo la maggior parte delle abitazioni vicine compresa quella della famiglia Fontana. Per miracolo o come lo si voglia chiamare, nessun membro della famiglia fu colpito dal bombardamento tedesco. Questo perché sentendo la sirena suonare, riuscirono a rifugiarsi per tempo all’interno di  un rifugio antiaereo. Una volta uscita dal rifugio la famiglia vide la devastazione causata dal bombardamento e una volta raggiunta la propria casa videro che anch’essa non era sopravvissuta al massacro; quello che una volta era il corridoio pieno di decorazioni che collegava l’ingresso al resto del loro appartamento ora fungeva da facciata dell’abitazione… non era rimasto nient’altro. Persa la loro casa, in qualità di sfollati (questo è il termine che identifica le persone che hanno perso la casa), mia nonna e la sua famiglia ebbero la fortuna (se cosi la si può chiamare) di essere ospitati da una famiglia benestante di Pavia che risiedeva in piazza Petrarca e che aveva la possibilità di mettere a disposizione della comitiva una stanza. Un vivo ricordo che accompagnò mia nonna per una buona parte della sua vita era il profumo di bistecca che proveniva dalla cucina della famiglia che li ospitava. Un profumo così vicino ma al contempo così lontano… questo perché ai tempi di guerra ogni genere alimentare tendeva a scarseggiare o a non essere proprio reperibile sugli scaffali dei negozi. Gli unici modi per procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti era l’utilizzo delle tessere alimentari distribuite ai cittadini per andare a prendere la propria razione giornaliera di pane e acqua, poiché oltre a quello c’era poco altro.  Chi invece aveva ancora qualche possibilità economica era solito ricorrere alla “Borsa Nera” ovvero il mercato clandestino, dove era possibile reperire a prezzi altissimi generi alimentari tra cui carne, latte, e altre leccornie che al di fuori di questo mercato non era neanche possibile poter immaginare di reperire. Un altro aiuto che mia nonna, le sue sorelle ed il resto della sua famiglia ricevettero proveniva da i due fratelli della bisnonna materna Cesira, che vivevano al di furi di Pavia in alcuno paesini limitrofi, dove possedevano piccole coltivazioni con le quali potevano pensare di tirare avanti. Quello che riuscirono a racimolare però, non era sufficiente per vivere. Così la più giovane delle sorelle, Silvana, per riuscire portare a casa qualcosa da mangiare fu costretta a lavorare per i fascisti, come segretaria di un ufficiale del partito. Ciò durò fino alla fine della guerra, quando il regime fascista cadde definitivamente e arrivò la Liberazione da parte di partigiani e alleati. La rabbia rimasta nei cuori dei partigiani e di chi aveva combattuto, perso amici e famigliari  a causa del regime fascista si rovesciò su chi avesse lavorato volontariamente o meno con i fascisti, ma ciò non importava. Gli uomini che avevano collaborato con i fascisti venivano denudati, derisi, percossi  e fatti sfilare per le strade mentre le donne venivano rasate a zero per poi essere esibite per le strade delle città come trofeo. Il bisnonno Siro, per evitare questa tortura a sua figlia Silvana (che fu costretta a lavorare per i fascisti),  temendo e sapendo ciò che i partigiani le avrebbero potuto fare se l’avessero trovata, decise di nasconderla a casa di una sua conoscente fino a quando le cose non si sarebbero calmate. Dopo svariati mesi la famiglia Fontana fu in grado di riunirsi e poter cominciare a ricostruirsi la propria vita non più a Pavia, loro città natale ma nella grande metropoli: Milano.

L’incredibile storia di Sante Mucchietto

Contributo a cura dello studente Gabriele Bessega Sante Mucchietto era un mio prozio. Ebbe una croce al merito per la campagna di Russia. La croce al merito è un riconoscimento militare concesso ai soldati italiani che hanno combattuto onorevolmente per più di un anno in difesa della patria. Per tutta la vita Sante ha tramandato la sua esperienza di guerra, prima ai famigliari, poi ai conoscenti e andando anche nelle scuole, infine ha lascito degli scritti affinché non vada dimenticata con il tempo la dura battaglia affrontata dagli italiani in Russia. Dedicò inoltre una poesia al cane Lilla che l’ha aiutato durante il gelo e la solitudine in Russia (riportato infondo). Sante Mucchietto è nato il 1° novembre 1921 a Mossano, piccolo comune del Vicentino noto quale Paese dei 14 Mulini. È deceduto lo scorso dicembre. Di seguito riporto alcuni passaggi delle sue memorie, che meritano di essere lettere. “Nel 1935 erano tempi molto duri e sia a mezzogiorno che la sera erano contate 13 bocche da sfamare in famiglia. Ero il secondo dei sette fratelli e forse quello che sgobbava di più. Venne l’anno 1939 a farmi diventare giovane di leva, a farmi capire che potevo cambiare mestiere: non dovevo più lavorare al mulino, non sarei stato più di peso alla famiglia e, in certo qual modo, potevo avvalermi degli studi conseguiti anni prima. Il 10 dicembre 1940 fu giorno in cui al Distretto militare lasciai i panni borghesi per rivestire quelli in grigioverde.  Per la mia missione dovevi essere trasferito, aggregato ad un reparto del Corpo di Spedizione Italiano, in Russia (C.S.I.R.). Sono stato assegnato alla 3^ Compagnia. L’attesa della partenza viene colmata da lunghe marce giornaliere ed estenuanti esercitazioni.  Finalmente si parte col treno tutti accovacciati, raggomitolati e si trascorre la notte senza la possibilità di guardarci in faccia, fra il rumore di altri convogli che vanno e vengono fino al sorgere del giorno quando una locomotiva, con un grande scossone, viene a caricare i soldati come caricare la merce umana. Il viaggio dura 31 giorni con soste più o meno prolungate, attese, scambi di precedenza per altri convogli, corse al rilento, e noi soldati lì, con gli occhi rossi, gonfi, avidi di vedere, scrutare paesaggi insoliti, nuovi, pianure distese, casolari sperduti nell’ondulazione dei prati, e macchie d’alberi nelle vastità dei boschi. Arrivammo a Varsavia dove i segni della guerra erano evidenti: edifici sbriciolati, ponti divelti, rottami di ogni genere testimoniano che c’è stata battaglia e più si andrà verso nord più apparirà l’orrore della distruzione. Nessuno venne a dirci che eravamo arrivati alle retrovie del fronte Nord dove con maggior intensità infuriavano i combattimenti e dove tutto era movimento di truppa, di blindati, di automezzi. Si vedevano pure squadre di operaie, le donne del posto, mobilitate, militarizzate dal Reich, obbligate all’abbandono delle loro case, dei figli, allontanate dai loro villaggi perchéé abili, e quindi utili al ripristino delle strade, soprattutto quelle della rete ferroviaria.  Continuammo il viaggio e ci vollero ben quattro giorni per superare la distanza dei 1200 km tra Brest e Kiev. Lungo tutto l’arco del nostro trasferimento, i segni della guerra divennero sempre più evidenti. Lungo la ferrovia il terreno era divelto, cosparso di buche profonde; in vicinanza alla città si vedevano i caseggiati bruciacchiati, distrutti. Ricordo che non potevamo scendere dal nostro vagone e nulla potevamo visitare. Ogni cosa ci era preclusa e così avevamo perso la cognizione del tempo.  Era il 12 luglio del 1942. Il viaggio continua di notte onde evitare possibili attacchi aerei nemici; la visione all’intorno era quasi nulla e solo la flebile penombra delle mezze luci ci permetteva di individuare la pista fangosa che ci portava a Stalino, capoluogo del bacino carbonifero del Donetz, la regione che alcune settimane prima era stata felicemente conquistata in un solo sbalzo in concomitanza con la battaglia per Kharkov. Tra sobbalzi e strattoni, ci lasciavamo alle spalle chilometri e chilometri senza incontrare anima viva. Così passa la notte fino al sorgere dell’alba, quando vinti dalla stanchezza e per la necessità di raffreddare i motori, si dovette fare sosta a ridosso di alcune isbe di un villaggio. Spiccava fra queste il kolkos, una costruzione tipica, fatta di mattoni il cui impasto alla luce risultava fatto con terra, paglia e sterco bovino, il tutto ricoperto di bianca calce.  Si raggiunse Rikovo in pieno giorno, quando il sole picchiava forte e la sonnolenza ci investiva, ma si doveva stare sempre all’erta a guardare all’insù che il cielo fosse libero, pulito, sgombro da quei puntini neri, o meglio da quelle virgole che erano gli “apparecchi” sempre pronti e fulminei a piombarci sopra. Fra una casa e l’altra si notavano costruzioni massicce dove, fra i rossi mattoni, spiccavano le allegoriche effigi della stella rossa con falce e martello.  Partimmo con destinazione Dnepropetrovsk. Erano giorni di calura. Le voci di Radioscarpa che i reparti combattenti della Pasubio avevano raggiunto il corso del fiume Don, quindi erano impegnati in un lavoro di riorganizzazione e d’assestamento. Radioscarpa era il nome utilizzato per identificare i soldati che attraversavano a piedi i territori di guerra per portare informazioni dal campo base ai soldati sul fronte. Nelle pause giornaliere era necessario spogliarsi, mettersi a torso nudo per vincere il caldo, ma soprattutto per spidocchiarsi. In tutta la zona, dal Dniepo al Volga, fra la popolazione era infatti persistente un’infestazione di pidocchi. Per evitarne il contagio, si doveva stare lontani dalla gente. Tutti li avevamo addosso. Era diventata cosa divertente scherzare quando qualcuno, alla prima pozzanghera, al primo acquitrino, si lavava e strizzava i panni. Ma la cosa più curiosa, ridicola, era, attraversando i villaggi, vedere come quelle “babushki” (nonnine) davano la caccia ai pidocchi. Era veramente penoso, ma anche questo faceva parte della guerra. Un giorno dovevamo attraversare un ponte quando due aerei da caccia presero di mira l’ultimo mezzo della colonna e in un paio di tornate lo fecero saltare con tutto il carico. Noi soldati ci eravamo sparpagliati, pancia a terra, e pregavamo il buon Dio che ci scampasse

Da un’altra angolazione: la storia di Wolfgang Schulze

Contributo dello studente Patrick Schulze I miei nonni paterni sono tedeschi, nati e cresciuti durante la Seconda guerra mondiale in Germania, ma si sono trasferiti in Italia nel 1959. Mio nonno è nato nel 1932 nella Germania dell’ovest, era un ragazzo durante la guerra, ma il tempo e le emozioni hanno corroso le memorie e quello di cui si ricorda ancora è poco. Mia nonna invece, nacque nel 1941 nella Germania est, più precisamente nella Prussia (alla fine della guerra farà parte della Polonia), e quindi non si ricorda quasi nulla di quel periodo. Nonostante ciò, sono riuscito a parlare con loro e mi hanno raccontato di eventi o situazioni particolari che ricordano per darmi un’idea della situazione della Germania durante e dopo la guerra.  Alla fine della guerra Wolfgang (mio nonno) aveva 14 anni, e i soldati tedeschi facevano ritorno dai campi di battaglia. Il padre di Wolfgang andò in guerra in Russia, ma non fece mai ritorno; non si sa cosa sia successo, se sia morto in guerra o durante il viaggio di rimpatrio, non c’era nessuna notizia a lui relativa, questa era l’unica cosa certa. Wolfgang, quindi, si sedeva ogni giorno su un muretto che affiancava la stazione e guardava come decine e decine di soldati passavano e si incamminavano verso casa, verso le loro famiglie, i loro amati e i loro amici. In mezzo a quel fiume di uniformi, cappellini e borsoni, sperava di riconoscere la faccia familiare di suo padre; ma i giorni e le settimane passarono, i soldati diminuivano, ma non vide mai più il volto così tanto atteso.   La parte più straziante per la madre di Wolfgang furono però i mesi a seguire: non giunse mai notizia se il marito fosse vivo o no, e per mesi lei non era né moglie, né vedova; questo significava che ella non riceveva alcun tipo di assegno per vedove. Tale situazione continuò per sei mesi finché il marito non dichiarato caduto.  Anche il padre di Karin (mia nonna) cadde in guerra, anche se non si ricorda bene come, dal momento che aveva solo quattro anni quando giunse la notizia. Alla fine della guerra però i russi avanzarono verso ovest e presero anche la Prussia; i soldati russi non sembravano avere pietà di nessuno nella loro avanzata in terra tedesca. La madre di mia nonna, vedova, fu violentata da uno di questi soldati, e rimase incinta di un bambino. Questo bambino però nascerà nella Germania Ovest, visto che quando arrivarono i russi, ai prussiani vennero date due possibilità: di trasferirsi nella Germania dell’ovest e rimanere tedeschi o di restare là dove abitavano e diventare polacchi. La madre di Karin, incinta, decise di andare in Germania.  Il viaggio fu devastante, i fuggitivi emigrarono nei Fiehwagen (i vagoni di legno dei treni di solito utilizzati per il trasporto di animali) e sedevano e dormivano sul fieno, uno quasi sopra l’altro per giorni, con delle rare fermate. Nonostante la pesantezza, erano contenti di avercela fatta, anche se non era raro che gli aerei alleati bombardassero i treni di trasporto con dentro gli emigranti. Una volta giunta in Germania andò ad abitare in una famiglia che era obbligata dallo stato ad accogliere coloro che accorrevano dalla Prussia. Dopo la fine della guerra, però, venne data possibilità agli ex prussiani di visitare le loro vecchie case; là Karin rivide la cascina della sua famiglia, maltenuta ora da un contadino polacco, e quando gli venne detto chi erano quei visitatori, le lacrime gli coprivano le guance e si scusò alla famiglia di Karin, come se fosse un criminale; il senso di colpa lo invase, colpa perché anche lui era stato obbligato dai russi a vivere là e non aveva altra scelta. Infine, regalò un cestino di uova e si scusò nuovamente.  Durante la guerra e il dopoguerra la fame e la mancanza di provviste colpì tutta la Germania. I miei nonni si ricordano ancora bene di come il cibo era razionato e ogni famiglia aveva il permesso di comprare una quantità limitata di burro, pane, zucchero o qualsiasi alimento. Mio nonno si ricorda di come sua madre accendeva il fornello e metteva la pentola, le lacrime le ricoprivano il viso e non sapeva cosa fare da mangiare ai suoi quattro figli. La madre di Karin invece portava con sé lo zucchero e il pane quando usciva di casa per evitare che i figli, con le ginocchia gonfie di acqua per la fame, lo mangiassero mentre era via. Karin si ricorda anche di come le sue scarpe fossero diventate troppo piccole da tempo, ma le indossava comunque con la punta tagliata e le dita scoperte. I miei nonni fortunatamente vissero in paesi piccoli che non erano presi di mira dai bombardamenti quanto le grandi città, comunque hanno avuto delle esperienze ravvicinate con degli attacchi aerei; Wolfgang e suo cugino una volta stavano andando in stazione e da lontano sentirono degli aerei militari avvicinarsi, si nascosero lì vicino e poco dopo sentirono gli aerei sparare sui treni in stazione. Spesso durante la notte Wolfgang veniva svegliato da sua madre per correre nel bunker quando si sentivano gli aerei passare e stavano lì per la notte, senza sapere se gli aerei bombardassero o se fossero solo di passaggio. Un’ altra volta invece fu gettata una bomba a vuoto non lontano dal paese e l’ordigno distrusse le finestre del ginnasio dove studiava Wolfgang. Dopo il bombardamento fu costretto ad andare a piedi in un’altra scuola, distante cinque km. Spesso Karin e altri ragazzi andavano nei boschi a raccogliere le more per rivenderle per qualche soldo o qualche litro di latte e, ogni volta che uscivano, i genitori tremavano perché nei boschi c’erano ancora le mine a pressione lasciate dalla guerra che potevano sempre esplodere. Anche Wolfgang si ricorda come per guadagnare qualche soldo sua madre facesse tanti chilometri per andare a vendere oggetti vecchi al mercato delle pulci: quando tornava a mani vuote, andava lui con tutti gli oggetti a una fattoria per poterli almeno scambiare

Aladar: un uomo giusto.

Il dottor Aladar Habermann è riuscito a salvarsi dalle deportazioni grazie in particolare alla perseveranza di Rosa De Molli, sua moglie e madre di Annamaria. Tuttavia egli stesso si è concretamente attivato in più occasioni per garantire protezione a famiglie in pericolo. Riportiamo qui le lettere di alcune persone salvate dalla deportazione proprio grazie all’intervento del dottor Habermann, scritte dopo la guerra con l’obiettivo di supportare la richiesta di Aladar della cittadinanza italiana. Gli originali sono consultabili in formato digitalizzato in basso.   (Pag 9) Io sottoscritta TEDESCHI Rina Meise Gustavo e fu Zanetti Maria, nata a Verona il 3/1/1899, residente a Badia Calavena (Verona) già nubile, casalinga, dichiaro quanto segue: Nel Maggio 1944 Fui costretto a fuggire dalla mia abitazione di Badia Calavena (Verona) essendo perseguitata dai Nazi-fascisti, per ragioni razziali e dopo varie peripezie alla fine del suddetto mese, mi rifugiai a Busto Arsizio (Varese) dove -eccezionalmente- venni a conoscere il Sig.Dott.HABERMANN, il quale presami in considerazione, generosamente e patriotticamente, senza tener conto del grave rischio cui andava incontro per la sua stessa persona, mi ospitò presso la di lui famiglia e provvedendo gratuitamente al mio sostentamento sia in vitto che per il vestiario, quando allontanata da casa con puro vestito che indossavo, fino alla Liberazione.            A Badia Calavena, il 12 Agosto 1949. LA DICHIARANTE  Rina Tedeschi     (Pag 13) Io sottoscritto, Matteri Virgilio fu Pietro domiciliato a Dongo (Como) Per la verità e giustizia con piacere posso dichiarare quanto segue:  Dopo la scarcerazione da S.Donnino, (21 marzo 1945) venni nuovamente ricercato dai nazifascisti e minacciato di morte quale elemento da sopprimere. Per sottrarmi a tale persecuzione fu accompagnato da Padre Santino Viale dei Frati Minori a Busto Arsizio alla casa del Dott. Aladar Habermann completamente sconosciuto a me ed io a lui. Dallo stesso Dottore fui accolto fraternamente e tenuto celato, con suo pericolo personale, fino alla liberazione. Dongo, 15 luglio 1949 In Fede Geom. Virgilio Matteri     (Pag 14) DICHIARAZIONE Noi sottoscritti , Matteri Virgilio fu Pietro , Moschini Mario fu Giov. Battista, Allemagna Mario fu Luigi, Arnaboldi Ambrogio di Fioravanti , Conti Luigi fu Pietro dichiariamo quanto segue: Il 22 dicembre 1944 fummo arrestati dalle Brigate Nere e passati a disposizione delle SS Tedesche, trasportati alle carceri di S.Donnino a Como, quali elementi antifascisti e antinazisti, a disposizione di essere internati in campo di concentramento in Germania. Mediante il tempestivo intervento del Dottor Aladar Habermann, che ha potuto avvicinare l’interprete ungherese, si è arrivati in un primo tempo a ritardare e sorprendere il nostro internamento e poi, sempre per merito dello stesso Dott. Habermann rivolgendo a nostro favore le varie disposizioni, dopo tre mesi di lavoro, si è ottenuta la nostra scarcerazione.   Trascriviamo qui di seguito i nominativi di tutti quelli, noi compresi, che erano nelle condizioni qui sopra dette.      (Pag 15) 1) Allemagna Mario    2) Amedeo Giovanni    3) Arnaboldi Ambrogio    4) Battaglia Amedeo    5) Bianchi Fiovo 6) Briz Ernesto       7 )Briz Germano  8) Canape Aimone  9) Canape Dorino 10)Cogotzi Raffaele 11)Finistauri Nicola 12)Gobetti Renato 13)Matteri Virgilio 14)Meloni Sannio 15)Montini Arialdo 16)Montini Giovanni 17)Montini Giuseppe 18)Tognola Diego 19)Soanagatta Achille 20)Todeschi Carlo 21)Nocera Umberto 22)Rossi Luigi 23) Ortelli Carlo 24)Montini Urbano 25)Moschini Mario 26)Negri Giovanni 27)Negri Giuseppe 28)Conti Luigi 29)Nicolini Paolo 30)Nicolini Granzella Tina 31)Romanó Gino Dongo, 2 luglio 1949     Pag 16 DICHIARAZIONE Io sottoscritto Rumi Angelo di Giuseppe residente a Dongo fui arrestato in data 10 ottobre 1944 e detenuto dalle SS Tedesche e pronto per essere inviato in Germania. Ho potuto essere liberato per l’intervento del Dott. Habermann che ha avvicinato l’interprete Sig.Denes e ha fatto cambiare le accuse che erano a mio carico. In fede Rumi Angelo  Dongo 15 luglio 1949     (Pag 17) Convento S.Antonio di Padova dei Frati Minori  Milano, 8 luglio 1949 Per quanto riguarda l’opera benefica svolta dal dott.Aladar Habermann, a Busto, devo rendere la più bella testimonianza. Nel triste periodo 1943-46, ero Superiore del Convento dei Frati Minori in Busto Arsizio , che accoglieva oltre quaranta religioni . Il Dott.Habermann mi soccorse largamente con medicinali , con la prestazione gratuita dell’opera sua in ogni circostanza. Ma quello che ha più valore e degno di nota furono le sovvenzioni e gli aiuti che il Dottore m’elargiva costantemente , perché le facessi pervenire alle famiglie più bisognose degli internati, prigionieri, partigiani e ad altre famiglie versanti in necessità. Concorse anche, perché con altri generosi benefattori potesse funzionare, presso il Convento la “Casa del povero”, dove, ogni giorno si distribuivano n.50 minestre. In fede Padre Francesco Bianchi  Ordine Frati Minori     (Pag 18) DICHIARAZIONE Io sottoscritto Massarelli Giulio fu Erminio, già appuntato dalla Guardia di Finanza in servizio permanente effettivo, dichiaro in piena coscienza quanto appresso: sin dal tempo cospirativo, risalendo all’anno 1944, epoca che ricorda ancora nel nostro animo molte peripezie per i momenti difficili in cui si viveva, potei portare a termine compiti preziosi e molti e molti ebrei, con l’intento di salvarli, poiché erano braccati dai nazi-fascisti. Mi misi a contatto con il sig. Dr. Aladar Habermann, il quale non valutando il pericolo a cui andava incontro, si prestava, con affetto sincero all’espatrio dei sig. Paolo e Elena Pick di nazionalità cecoslovacca. Primo compito. In un secondo tempo Bela e Claba Jenei, Colomanno Jenei e Ladislao Vadas di nazionalità ungherese. In seguito anche il Sig. Bela Peiffec di nazionalità ungherese.  Il Dr. Habermann ha seguito personalmente le persone che mi venivano affidate, meno i due cecoslovacchi, per tranquillità dei fuggiaschi e per assicurarsi della sicura salvezza dei suoi protetti ospitati in suolo Svizzero, da dove sono poi ritornati tutti quanti. Busto Arsizio , 15/7/1949 In fede Massarelli Giulio     (Pag 19) Deputazione Provinciale di Varese  Il Presidente  11 Luglio 1949 Dichiarazione Il sottoscritto, Luciano Vignati di Busto Arsizio, presidente della Deputazione Prov. Di Varese e già Commissario Comandante del Raggr.to Divisoni “A. Di Dio”del C.V.I., è ben lieto di attestare che durante l’occupazione nazista, arrestato e

Le lettere di Tamàs al padre Aladar

Tamàs Habermann è nato nel dicembre del 1929 da Aladar Habermann e Rozsi Katona; ha vissuto a Busto Arsizio in Piazza San Giovanni 2 con i suoi genitori fino al 1935, quando la madre decise di tornare in Ungheria, a Baja. Dal 1936 risulta residente in Ungheria presso la nonna paterna Hirschl Jolan, alla quale fu affidato dopo il divorzio dei genitori avvenuto probabilmente nel 1936. Dopo questa separazione furono rarissime le occasione per Aladar di rivedere suo figlio, a causa delle leggi razziali che non permettevano spostamenti; tuttavia Tamàs scrisse numerose lettere a suo padre fino al I° febbraio del 1944. Dopo questa data si perdono le sue tracce: venne sicuramente deportato in un campo di sterminio, ma ad oggi non è stato possibile ricostruire la sua storia successivamente a questa data. L’ipotesi più probabile è che sia morto ad Auschwitz. Aveva 15 anni. Qui puoi visionare le lettere del piccolo Tamàs a suo padre e i documenti di Croce Rossa relativi alla ricerca del ragazzo:

I documenti dell’archivio Habermann

  Grazie alla disponibilità della dott.ssa Annamaria Habermann, le studentesse Rachele Zingale e Sonia Cassani hanno avuto la possibilità consultare i documenti presenti nell’archivio della famiglia Habermann relativi in particolare al padre Aladar e alle ricerche svolte per ricostruire la vicenda personale e il destino del giovane Tamàs. I documenti sono stati digitalizzati, consultati e indicizzati e costituiscono una preziosa fonte di informazioni soprattutto per quanto riguarda l’applicazione delle leggi razziali in Italia, nella loro specifica declinazione per persone prive della cittadinanza italiana.   Consulta l’indice e, in basso, i documenti digitalizzati. Pagina Data documento Lingua Tipologia di documento 1 // Italiano Elenco documenti di Aladar Habermann  disponibili nel fascicolo. 2 // // Cartina geografica dell’Ungheria con sottolineature nelle città di Baja e Csàtalja. 3 // Italiano Un amico ungherese collabora alla ricerca di informazioni relative al nonno di Annamaria Habermann. 4 // Ungherese Copia di agendina di Aladar Habermann  contenente indicazioni di ricerca  per provare a rintracciare Tàmas in lingua ungherese, dunque inizialmente incomprensibile ad Annamaria.  5,6,7,8 1938 Ungherese Copie dei passaporti ungheresi di Aladar Habermann  e di sua moglie Rosa De Molli. Contestualmente alla celebrazione del matrimonio civile (6 ottobre 1938), Rosa perde la cittadinanza italiana ed acquisisce quella ungherese. Si segnala che le nozze sono celebrate sei giorni dopo il termine ultimo concesso dalle leggi razziali. Annamaria, seppur nata a Busto Arsizio, viene registrata a Budapest: il suo nome compare sul passaporto materno. 9 1940 Ungherese Certificato di nascita Aladar Habermann. 10 1943 Ungherese Dichiarazione della residenza del giovane Tàmas Habermann, presso la nonna materna, in via Attila 10 a Baja. 11 1943 Ungherese Aladar risulta residente a Busto Arsizio per il comune di Csàtalja. 12 3 luglio 2006 Ungherese Documento estratto dal registro delle nascite della Repubblica Ungherese:  attesta la nascita di Aladar Habermann. Compaiono i nome dei genitori. 13 1997 Ungherese Elenco famiglie ebree deportate: al numero 10 compare il nome di Tàmas Habermann e della nonna materna. Accanto al nome di Tàmas compare la scritta “nato cristiano”. 14 2006 Ungherese Documento estratto dall’elenco dei matrimoni: tra Habermann Aladar e Klein Rozsa (prima moglie di Aladar, che successivamente cambierà il cognome in “Katona” in quanto il precedente rimandava alla tradizione ebraica). 15 2006 Ungherese Documento estratto dal registro delle nascite: attesta la nascita di Tàmas Habermann il 9 dicembre 1929. 16,17 1927 Latino Diploma di laurea del dottor Habermann in medicina a Vienna, dove si era trasferito a causa del “numerus clausus” per il quale solo una cerchia ristretta di persone di religione ebraica aveva accesso agli studi universitari in Ungheria. 18 1927 Latino/Ungherese Documento relativo alla laurea, in tedesco e latino. 19 25 luglio 1929 (settimo anno fascista) Italiano  Aladar Habermann consegue una seconda laurea in medicina a Roma, come certificato dal documento. 20 1929 Tedesca Documento relativo alla laurea di A. Habermann in medicina a Roma, tradotto in tedesco. 21 24 dicembre 1929 (ottavo anno fascista) Italiano Attestato per l’abilitazione all’esercizio della professione di medico chirurgo di Aladar Habermann in Italia, ottenuto a Milano. 22 1929  Tedesca Traduzione del documento relativo all’abilitazione. 23 15 luglio 1925 Tedesca Documento di riconoscimento svolgimento professione di medico dal 21 aprile al 15 luglio 1925, nel reparto di medicina seconda presso l’ospedale Kultusgemeinde Wien, come praticante. 24 25 aprile 1930 Tedesca Documento relativo alla professione di medico a Baja. 25 12 ottobre 1928 Ungherese Documento relativo alla professione di medico a Baja 26 26 novembre 1930 Tedesca Documento relativo alla professione di medico: referenze del direttore del sanatorio di Calmbach. 27,28 31 marzo 1933 Tedesca Documento relativo alla professione di medico: referenze del professor Werner dalla clinica di Aalen. Importante la data che coincide con la presa del potere da parte di Adolf Hitler e con la conseguente decisione del dottor Habermann di abbandonare la Germania per trasferirsi in Italia. 29 30 marzo 1933 Tedesca Documento relativo alla professione di medico con elogi all’operato del dottor Habermann. 30,31 8 luglio 1940 Slava Il dottor Habermann figura come medico contrattuale della Regia marina Jugoslava. 32 8 luglio 1940 Italiano Traduzione in italiano di un documento del Regno di Jugoslavia che attesta che la madre di Aladar Habermann, Malvina Giskan, è di religione cattolica romana. 33 1940 Italiano Documento che accerta che il professor ingegnere Giuseppe Pavic ha tradotto fedelmente dal serbo all’italiano il precedente documento. 34 1938 Ungherese Certificato di residenza di A. Habermann in piazza S. Giovanni 4. 35,36 1938 (sedicesimo anno fascista) Italiano Certificato di residenza di A. Habermann in piazza S. Giovanni 4. 37 24 ottobre 1933 Italiano Tessera di riconoscimento dell’ordine dei medici (Milano) 38 11 marzo 1929 Italiano Certificato nazionalità ungherese di A. Habermann 39 5 dicembre 1929 Italiano Permesso di soggiorno in Italia di Aladar Habermann che in questo periodo risiede a Milano. 40,41 1942 (ventesimo anno fascista)  Italiano Tesserino della confederazione fascista dei professionisti e degli artisti di Varese 42 26 ottobre 1929 Italiano Certificato di identità personale rilasciato a Padova. 43 12 febbraio 1930 Italiano Certificato di residenza a Padova. 44,45,46,47 2 dicembre 1933 Italiano Verbale con delibera dell’ospedale di circolo di Busto Arsizio che acconsente ad A. Habermann di far pratica gratuita nel reparto di medicina. 48 10 novembre 1938 Italiano Documento segreto del ministero dell’interno: rubrica speciale degli ebrei stranieri. Alla lettera “H” compare Habermann. Chiunque dei soggetti in elenco se fosse presentato alla frontiera sarebbe stato espulso dal paese. 49,50,51 3 maggio 1939 Italiano Documento del ministero dell’interno, direzione generale della demografia e la razza: l’ebreo straniero è di razza ebraica ma di religione cattolica, con richiesta dei documenti di battesimo. 52 26 ottobre 1939 Italiano Documento di richiesta di eliminazione del nome A. Habermann dall’elenco degli ebrei della città di Busto Arsizio: in Ungheria è ritenuto ariano. Questo documento non è stato ritenuto valido fino al 1941. 53 1 marzo 1940 Italiano Lettera rivolta all’ufficio di censimento del comune di Busto Arsizio in cui A. Habermann dichiara di non dover essere considerato ebreo. 54 6 marzo 1940 Italiano Risposta negativa del podestà della città di Busto Arsizio

Ondina Valla, la prima campionessa olimpica italiana.

Trebisonda Valla, detta Ondina, nasce a Bologna il 20 maggio 1916. È stata un’ostacolista specializzata in ostacoli alti e una velocista, campionessa olimpica degli 80 metri ostacoli a Berlino 1936, nonché la prima donna italiana a vincere una medaglia d’oro ai Giochi olimpici. Il suo particolarissimo nome è stato scelto dal padre come omaggio alla città turca di “Trabzon”, che ai suoi occhi risultava affascinante e meravigliosa, proprio come sarebbe stata la sua amata figlioletta. Ondina ha quattro fratelli maschi più grandi ed esordisce ai campionati studenteschi bolognesi, in competizione con la sua compagna di scuola Claudia Testoni (nella foto qui sotto). Entrambe erano tesserate con la Virtus Bologna Sportiva.  A soli tredici anni Ondina era considerata una delle più promettenti sportive dell’atletica leggera in Italia, allenata da Vittorio Costa e da Boyd Comstock. Nel 1932 venne convocata per i Giochi olimpici di Los Angeles ma non ebbe effettivamente occasione di parteciparvi in quanto il Vaticano ritenne sconveniente la partecipazione di una giovane donna ad un viaggio transoceanico totalmente al maschile. Le sue doti eccezionali vennero notate e appoggiate dal governo fascista, che vide in lei un esempio della sana e atletica gioventù italiana. Con la vittoria dell’oro olimpico ai Giochi del ’36 a Berlino, Ondina Valla diviene un vero e proprio simbolo dell’Italia fascista, un modello di forza e dinamismo che la propaganda utilizzò per comunicare l’immagine di un’Italia agguerrita e vincente. Negli anni del regime fascista l’ideale della donna come “angelo del focolare” si opponeva infatti alla partecipazione femminile alle attività sportive; tuttavia il fascismo riserva una grande attenzione allo sport, servendosene sia come fattore di educazione e socializzazione delle masse, sia come veicolo di propaganda. La vicenda di Ondina Valla racchiude in sé questa contraddizione, perché da un lato il regime intendeva utilizzare a livello propagandistico i successi dell’atleta, dall’altro si trovava di fronte a una figura che non rifletteva il modello di donna che si voleva imporre. Il successo olimpico del 1936 contribuisce, almeno in parte, a cambiare la percezione dello sport femminile e, più in generale, del ruolo della donna nella società da parte dell’opinione pubblica. Nei filmati dell’epoca vediamo Ondina fare il saluto romano dal gradino più alto del podio, per poi essere ricevuta a Piazza Venezia da Mussolini.  La “Gazzetta dello sport” del 7 agosto 1936 dedica interamente la sua prima pagina alla vittoria di Ondina alle Olimpiadi di Berlino: fin dal titolo si può notare l’esaltazione della nazione italiana attraverso la vittoria dell’atleta, non a caso le parole immediatamente visibili sono “Il tricolore d’Italia”, ancor prima della citazione del nome di Ondina, a testimonianza del fatto che questa vittoria fosse stata interpretata e utilizzata dal regime ai fini della propaganda messa in atto da Mussolini negli anni della dittatura italiana. La prestanza atletica di Ondina simboleggia agli occhi del duce la forza dell’intera nazionale italiana e una vittoria, seppur sportiva, riportate in una competizione con atlete straniere allude alla possibile vittoria militare del popolo italiano.  Il fratello di Ondina, Rito, noto scultore, celebra la sua vittoria con la statua “L’Ostacolista”(1936-1938). L’opera viene collocata davanti alla sede della Gioventù Italiana a Roma, poi, con la caduta del regime fascista, la spostano nel cortile di casa, dove l’industriale Carpigiani la nota e dichiara di volerla acquistare che per collocarla davanti alla sua fabbrica ad Anzola dell’Emilia (Bologna). Ancora oggi la statua si trova all’ingresso dell’azienda a simboleggiare lo slancio del progresso verso il futuro. Nel 1943 Ondina incontra Guglielmo De Lucchi, medico ortopedico del Rizzoli ed ex atleta. Dalla loro unione nasce il figlio Luigi. Per motivi di lavoro si trasferiscono prima a Perugia e poi all’Aquila. Qui affronta un periodo difficile a causa del contesto storico che la circonda e col marito crea la clinica “Villa Fiorita”, si occupava di varie mansioni gestionali, in particolare quelle alberghiere. Nell’ottobre 2006 Ondina muore all’Aquila. Sitografia: Documentario “Il segno delle donne” di Rai storia: https://m.facebook.com/watch/?v=702473957024802&_rdr http://www.ondinavalla.it/la-storia/latleta/  scrivodicorsa.it  crampisportivi.it enciclopediadidonne.it