Trebisonda Valla, detta Ondina, nasce a Bologna il 20 maggio 1916. È stata un’ostacolista specializzata in ostacoli alti e una velocista, campionessa olimpica degli 80 metri ostacoli a Berlino 1936, nonché la prima donna italiana a vincere una medaglia d’oro ai Giochi olimpici. Il suo particolarissimo nome è stato scelto dal padre come omaggio alla città turca di “Trabzon”, che ai suoi occhi risultava affascinante e meravigliosa, proprio come sarebbe stata la sua amata figlioletta. Ondina ha quattro fratelli maschi più grandi ed esordisce ai campionati studenteschi bolognesi, in competizione con la sua compagna di scuola Claudia Testoni (nella foto qui sotto). Entrambe erano tesserate con la Virtus Bologna Sportiva. A soli tredici anni Ondina era considerata una delle più promettenti sportive dell’atletica leggera in Italia, allenata da Vittorio Costa e da Boyd Comstock. Nel 1932 venne convocata per i Giochi olimpici di Los Angeles ma non ebbe effettivamente occasione di parteciparvi in quanto il Vaticano ritenne sconveniente la partecipazione di una giovane donna ad un viaggio transoceanico totalmente al maschile. Le sue doti eccezionali vennero notate e appoggiate dal governo fascista, che vide in lei un esempio della sana e atletica gioventù italiana. Con la vittoria dell’oro olimpico ai Giochi del ’36 a Berlino, Ondina Valla diviene un vero e proprio simbolo dell’Italia fascista, un modello di forza e dinamismo che la propaganda utilizzò per comunicare l’immagine di un’Italia agguerrita e vincente. Negli anni del regime fascista l’ideale della donna come “angelo del focolare” si opponeva infatti alla partecipazione femminile alle attività sportive; tuttavia il fascismo riserva una grande attenzione allo sport, servendosene sia come fattore di educazione e socializzazione delle masse, sia come veicolo di propaganda. La vicenda di Ondina Valla racchiude in sé questa contraddizione, perché da un lato il regime intendeva utilizzare a livello propagandistico i successi dell’atleta, dall’altro si trovava di fronte a una figura che non rifletteva il modello di donna che si voleva imporre. Il successo olimpico del 1936 contribuisce, almeno in parte, a cambiare la percezione dello sport femminile e, più in generale, del ruolo della donna nella società da parte dell’opinione pubblica. Nei filmati dell’epoca vediamo Ondina fare il saluto romano dal gradino più alto del podio, per poi essere ricevuta a Piazza Venezia da Mussolini. La “Gazzetta dello sport” del 7 agosto 1936 dedica interamente la sua prima pagina alla vittoria di Ondina alle Olimpiadi di Berlino: fin dal titolo si può notare l’esaltazione della nazione italiana attraverso la vittoria dell’atleta, non a caso le parole immediatamente visibili sono “Il tricolore d’Italia”, ancor prima della citazione del nome di Ondina, a testimonianza del fatto che questa vittoria fosse stata interpretata e utilizzata dal regime ai fini della propaganda messa in atto da Mussolini negli anni della dittatura italiana. La prestanza atletica di Ondina simboleggia agli occhi del duce la forza dell’intera nazionale italiana e una vittoria, seppur sportiva, riportate in una competizione con atlete straniere allude alla possibile vittoria militare del popolo italiano. Il fratello di Ondina, Rito, noto scultore, celebra la sua vittoria con la statua “L’Ostacolista”(1936-1938). L’opera viene collocata davanti alla sede della Gioventù Italiana a Roma, poi, con la caduta del regime fascista, la spostano nel cortile di casa, dove l’industriale Carpigiani la nota e dichiara di volerla acquistare che per collocarla davanti alla sua fabbrica ad Anzola dell’Emilia (Bologna). Ancora oggi la statua si trova all’ingresso dell’azienda a simboleggiare lo slancio del progresso verso il futuro. Nel 1943 Ondina incontra Guglielmo De Lucchi, medico ortopedico del Rizzoli ed ex atleta. Dalla loro unione nasce il figlio Luigi. Per motivi di lavoro si trasferiscono prima a Perugia e poi all’Aquila. Qui affronta un periodo difficile a causa del contesto storico che la circonda e col marito crea la clinica “Villa Fiorita”, si occupava di varie mansioni gestionali, in particolare quelle alberghiere. Nell’ottobre 2006 Ondina muore all’Aquila. Sitografia: Documentario “Il segno delle donne” di Rai storia: https://m.facebook.com/watch/?v=702473957024802&_rdr http://www.ondinavalla.it/la-storia/latleta/ scrivodicorsa.it crampisportivi.it enciclopediadidonne.it
Leggi di piú“Un uomo solo al comando… la sua maglia è bianca e celeste… il suo nome è Fausto Coppi”(Mario Ferretti nella radiocronaca della tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949) La vita di una leggenda Fausto Coppi nasce il 15 settembre 1919 a Castellania, un piccolo paese sopra Tortona e Novi, sull’appennino ligure-piemontese. Poco più che adolescente è costretto a trovarsi un lavoro come garzone di salumeria: è grazie alle consegne in bicicletta che viene notato per le sue capacità ciclistiche e nel luglio 1937 disputa la sua prima corsa. Al primo anno di professionismo vince il suo primo Giro d’Italia, sul favorito e rivale Gino Bartali. In seguito, il campionissimo del ciclismo, vince 110 corse di cui 53 per distacco, tra cui molti grandi giri e altrettante classiche di un giorno. Tra le numerose imprese sportive, la vita di Coppi è piuttosto movimentata: la partenza per la guerra, la relazione illegale con Giulia Occhini, la “Dama Bianca”, la sua influenza sull’Italia del dopoguerra… Ma il 2 gennaio 1960, per una malaria contratta durante un viaggio in Alto Volta (Burkina Faso) e non diagnosticata in tempo, l’“airone” si spegne a soli quarant’anni. Fausto nella storia dello sport Coppi non è solo un grande ciclista o una rilevante figura del XX secolo, egli influenza la storia ed è una parte fondamentale di essa: anzi, Fausto è storia. Storia di un uomo diventato la figura simbolica dell’Italia del secondo dopoguerra che ha vissuto con un profondo desiderio di riscatto e di dimostrare il proprio valore; storia di un ciclista che ispira generazioni di atleti ad essere spietati ma, nello stesso momento, rispettosi dei propri avversari; storia di un uomo che in sella ad una bicicletta riesce a volare oltre ai limiti. La sua vicenda inizia quando a quindici anni compra la prima bicicletta, una Maino grigio perla, e la usa per andare e tornare dal lavoro, per fare le consegne della salumeria e per allenarsi: almeno settanta chilometri al giorno, raccontano le sue biografie. Partecipa a qualche garetta locale, se la cava meglio che a scuola e nei campi, e nel luglio 1937 il nome di Fausto Coppi – erroneamente diminuito in “Faustino” – compare per la prima volta sulla Gazzetta dello Sport, dopo una vittoria in una gara della categoria “Giovani fascisti”. Qualche anno dopo un giornalista lo descrive così: “di poche parole, timido, mite. Lo osserviamo in corsa: pedalata agile, stilizzata; uno di quei giovani che sono nati per andare in bicicletta”. Ebbene sì, da questo momento nasce una stella del ciclismo. Fausto è destinato a incantare tutti con la sua pedalata leggiadra come il volo di un airone (viene soprannominato l’“Airone” proprio per questo fatto). Nel 1940 Coppi corre il suo primo Giro d’Italia. A nemmeno ventun anni è il più giovane al via tra i novanta partenti e alla fine delle tre settimane a Milano in rosa giunge proprio lui, Fausto Angelo Coppi, contro i pronostici dei media e del suo rivale, Gino Bartali. È tutto pronto per una grandissima rivalità tra i due futuri campioni. Il 20 giugno 1940 tuttavia la scelta di Benito Mussolini di portare l’Italia in guerra pone fine al sogno del Giro. La figura di Coppi nel secondo conflitto mondiale Durante il conflitto Coppi è chiamato alle armi ma, nonostante questo, non smette di pedalare: il 7 novembre 1942, sulla pista del velodromo Vigorelli, si compie l’impresa: Fausto affronta 115 giri e 151 metri, e stabilisce il nuovo record, 45,871 km, 104 metri in più del primato precedente. La prova, preparata dal campione in condizioni difficili, con poche possibilità di allenamenti dietro motori a causa del carburante razionato, viene compiuta in un clima surreale: la città è sotto bombardamenti e per evitare assembramenti in pista gli organizzatori comunicano un orario falso per l’inizio della prova, tanto che gli spalti dell’impianto rimangono semivuoti. Nonostante le tensioni belliche, l’indomani il primato viene celebrato dalla Gazzetta dello Sport come prova della “forza e volontà della razza italiana”. Il giorno dopo il record, l’8 novembre, gli angloamericani sbarcano in Marocco e Algeria dando inizio all’Operazione Torch, mentre le truppe italo-tedesche a Tunisi. Anche Fausto Coppi, caporale del 38º Reggimento di fanteria della Divisione “Ravenna”, riceve l’ordine di partire. La guerra di Coppi non dura però a lungo: il 13 aprile 1943 il campione viene catturato dagli inglesi a Capo Bon; successivamente viene deportato nel campo di di Medjez el Bab, in Tunisia, passando poi al campo di Blida, vicino ad Algeri. Nonostante ciò, è ben curato quando contrae per la prima volta la malaria, con il chinino, e racconta di essere stato trattato bene nei suoi mesi da prigioniero di guerra, nei quali riesce anche a seguire una sorta di corso da autista. Negli ultimi mesi di guerra Coppi torna a Napoli con gli inglesi e resta lì qualche mese, lavorando come automobilista aggregato alle forze alleate. La Milano-Sanremo del 1946 è la corsa della rinascita, non solo di Coppi ma di tutto un paese che cerca di rinascere. Coppi taglia il traguardo con quattordici minuti di vantaggio sul secondo classificato, la radio annuncia: “primo classificato Coppi Fausto; in attesa del secondo classificato trasmettiamo musica da ballo”. È così che termina la prima gara di una nuova epoca. Bartali è terzo, i due nemici-amici non si staccano, la guerra, la loro, continua e l’Italia ora è divisa tra bartaliani e coppiani. In quell’anno si svolge l’importante referendum a cui gli italiani sono chiamati a rispondere: scegliere tra monarchia e repubblica: Coppi e il suo rivale Bartali votano, come la maggioranza degli italiani, per la repubblica. Dopo questo periodo di enormi cambiamenti a livello storico, sociale e soprattutto ideologico, fatta di momenti di incertezza e di buio, si incomincia a rivedere la luce, la speranza, portata da uomini come Fausto Coppi, che incarna la voglia di rinascita e di riscatto del popolo italiano. “Per un corridore il momento più esaltante non è quando si taglia il traguardo da vincitori. È invece quello della decisione, di quando si decide di scattare,
Leggi di piúCenni all’assistenza agli orfani di guerra durante e dopo il primo conflitto mondiale. Introduzione La Prima guerra mondiale: una guerra nuova, moderna. Una guerra di posizione. Una guerra logorante. Un vero e proprio conflitto totale che ha coinvolto tutta la società civile, su più livelli: dalle industrie riconvertite per supportare lo sforzo bellico, alle donne poste per la prima volta al centro del mondo lavorativo, che intravedevano nel conflitto una possibilità di emancipazione. Tante le possibili definizioni della guerra 15-18. E un conflitto totale e moderno, per sua stessa natura, non risparmia nessuno, nemmeno i più piccoli: il mondo dei bambini viene attraversato da morte, mutilazioni, dispersione, stupri. Questi giovanissimi testimoni sono stati analizzati solo marginalmente alla storiografia. In queste brevi pagine analizzerò alcune situazioni specifiche contestualizzando l’emergenza orfani di guerra nella generale esperienza dell’Italia impegnata nel conflitto 15-18. L’Italia, la guerra e l’impreparazione legislativa L’Italia allo scoppio della Prima guerra mondiale aveva alle armi 248.000 uomini e appena 2.250.000 cittadini con obblighi militari e con un livello minimo di istruzione; a questi, nel corso dei quattro anni di guerra, vennero aggiunti altri 3.224.000 uomini. Furono chiamate alla guerra le classi dal 1874 al 1900 raggiungendo i 5.698.000 uomini anche attraverso il reclutamento di persone che erano state dichiarate fisicamente non idonee e persino dei feriti e dei malati, molti dei quali caddero sotto le fatiche della guerra. Secondo gli studi i militari italiani morti per diretta causa di guerra sono circa 680.000 che, sommati ai civili sempre per concause di guerra, diventano almeno 750.000. L’età media dei soldati caduti è di 25 anni e sei mesi e molti di loro erano sposati. La regione che ebbe le famiglie con almeno quattro figli al fronte fu il Veneto. Il numero dei grandi invalidi fu calcolato nel 1926 a 14.414. Conseguenza diretta di questa situazione è ovviamente un numero elevato di vedove e di orfani. Sulla base del censimento nazionale si stima che il numero di orfani di guerra in ciascuna provincia al 31 agosto del 1920 sono 262.535, mentre i figli degli invalidi di guerra assolutamente inabili al lavoro ammontano a 17.561, per un totale complessivo di 280.096. Udine risulta la provincia con il più alto numero assoluto di orfani, anche in rapporto al numero degli abitanti. Seguivano la provincia di Milano con 10.935, Roma con 9145 e Firenze con 8502 orfani. Secondo indagini svolte nell’aprile del 1921 la maggior parte degli orfani aveva un’età compresa tra i quattro e i dodici anni. Nella provincia di Udine, 6884 erano figli di agricoltori, 6050 figli di operai salariati, 183 figli di industriali e commercianti, 265 figli di impiegati e di professionisti. A guerra conclusa lo Stato deve chiaramente prendersi carico degli orfani di guerra e trovare il modo di gestire un numero così elevato di bambini e ragazzi a cui garantire assistenza. Nel 1915 l’Italia era impreparata alla gestione del problema degli orfani di guerra e ciò è testimoniato dal fatto che non esistesse una legislazione specifica; precedentemente erano nati due enti: l’Opera Nazionale di Patronato Regina Elena che aveva dato assistenza ai 4800 orfani del terremoto della Marsica e l’Opera nazionale Emanuele Filiberto di Savoia che aveva assistito gli orfani dei soldati che avevano combattuto nella guerra in Libia. Si trattava tuttavia di forme di soccorso che non prevedevano una vera e propria tutela e assistenza. All’indomani della Prima guerra mondiale, in cui il numero dei caduti aumenta ad ogni anno di guerra, si rende necessario varare delle leggi specifiche. Il regio decreto del 13 maggio 1915 istituisce dei soccorsi economici per le famiglie dei richiamati e nello stesso anno il governo stabilisce che il Ministero del tesoro conceda un acconto mensile della pensione presumibilmente dovuta a beneficio di vedove, orfani minorenni di soldati caduti in combattimento o in conseguenza alle ferite riportate. E tuttavia è la beneficenza privata ad assumersi più prontamente dello Stato alcune responsabilità. Nel 1916 si contano 38 orfani ogni 100 morti ed il 6 giugno del 1916 il Presidente del Consiglio Antonio Salandra presenta un disegno di legge per la protezione e l’assistenza degli invalidi di guerra e per la protezione e l’assistenza degli orfani di guerra. A tal proposito si tiene un lungo e complesso dibattito a fronte di un problema urgente. Il 6 agosto del 1916 viene varato il decreto luogo tendenziale numero 968 nel quale si definisce l’orfano di guerra. L’assistenza viene garantita ai figli legittimi e legittimati di soldati caduti in guerra o per le conseguenze dei danni riportati durante la guerra. Le norme delineano puntualmente le modalità di assistenza. I sindaci dovevano provvedere a redigere l’elenco degli orfani di guerra. Il ruolo dei comuni era fondamentale perché era l’istituzione più vicina al cittadino e aveva la possibilità di individuare le situazioni di necessità. L’elenco andava trasmesso al pretore del mandamento e al comitato provinciale di assistenza, istituito presso ogni prefettura. Nei comuni viene creata una commissione di vigilanza in cui figuravano anche un maestro e il parroco per il controllo della situazione familiare a garanzia e protezione degli orfani. L’impreparazione legislativa dello Stato italiano che negli anni della guerra aveva lasciato alla disperazione migliaia di famiglie colpite dal lutto, soccorse dalle congregazioni della carità e della beneficenza, fu in qualche modo compensata anche se con risorse che rimasero modeste e insufficienti rispetto ai bisogni effettivi. L’istituto friulano per orfani di guerra di Rubignacco e altre esperienze. Particolarmente interessante al fine dell’analisi della situazione sopra illustrata è la costruzione a Rubignacco di un grande istituto per gli orfani di guerra. È Giuseppe Girardini, ex alto commissario dei profughi, a destinare 1.200.000 lire alla costruzione di un orfanotrofio in provincia di Udine che avrebbe potuto accogliere in parte anche gli orfani del goriziano e della Venezia Giulia. Viene ricercato un fabbricato capace di ospitare 600 bambini con scuole e laboratori annessi e persino una colonia agricola. Anastasio Rossi, all’epoca arcivescovo di Udine, decide di vendere il seminario di Cividale del Friuli nei locali del quale viene allestito l’orfanotrofio. L’istituto diventa attivo
Leggi di piúDurante la prima guerra mondiale le donne non hanno avuto un ruolo di primo piano solo nel mondo del lavoro, che per la prima volta le ha viste entrare in azione spesso in sostituzione degli uomini impegnati in guerra, ma anche nel settore dell’assistenza. Molte donne di estrazione borghese e aristocratica organizzano nelle varie fasi del conflitto raccolte fondi in favore dei soldati e delle loro famiglie, applicando le proprio nozioni di economia domestica nell’ambito del supporto a chi è impegnato al fronte. Allo stesso tempo, in prossimità delle trincee e negli ospedali militari, si sviluppa anche l’assistenza in campo medico, nella quale sono coinvolte donne volontarie della Croce Rossa: le crocerossine. Così Giovanni Bertacchi (professore universitario e autore di poesie su temi sociali e umanitari) scrive a tal proposito: “Sola, tu t’immergi dentro il vero dolor di quei conflitti!”. Sono versi dedicati alle migliaia di infermiere volontarie della Croce Rossa che prestarono servizio con generosità assistendo i feriti della Grande Guerra. Esse sono definite “volontarie della pietà” ma anche “angeli degli ospedali” e sono entrare in contatto a tutti gli effetti con il dolore, lo strazio, la morte, le ferite provocate dalla guerra. Ogni crocerossina, per poter prendere servizio, era tenuta ad esibire l’autorizzazione rilasciata dal padre, dal marito e dal fratello e doveva partecipare ad un corso (il primo si tenne a Milano nel 1906, successivamente poi a Roma); in questo modo iniziava per loro quella che spesso era la prima esperienza al di fuori dell’ambiente familiare, un vero e proprio salto verso un mondo cruento e pericoloso. Solo alcune di loro avevano già affrontato precedentemente un primo contatto con un’esperienza dolorosa: quelle che avevano prestato soccorso ai terremotati di Messina. Esse indossavano una divisa bianca composta da una lunga gonna e un velo e svolgevano diverse mansioni; quella più impegnativa era la cura dei feriti, che andava dal bendaggio della ferita all’assistenza ai medici; le infermiere cercavano sempre di diffondere conforto, accompagnando cristianamente i pazienti più gravi verso la loro morte, per farli sentire meno soli.La loro figura è più celebre rispetto a quella delle altre donne presenti nella Grande Guerra, perché erano presenti nelle retrovie, in ambienti caratterizzati da una forte presenza maschile e questa immagine venne sfruttata anche dalla propaganda. Allo stesso tempo, però, al fronte e negli ospedali le donne rossocrociate subivano molto spesso pregiudizi in merito al decoro e alla moralità di tale compito, ma anche scarso rispetto da parte d’infermieri ed ufficiali che non volevano ricevere ordini dalle infermiere. Il loro lavoro si svolse non solo nelle retrovie delle trincee ma anche in ospedali da campo e territoriali: ospedali veri e propri, ma anche strutture ricavate in ville e residenze messe a disposizione da famiglie facoltose, oppure vecchi opifici, o scuole e conventi. Gli ospedali territoriali furono in totale 204, con circa 30.000 posti letti; i pazienti curati raggiunsero la cifra di 700.000, con l’impiego di 7320 infermiere. Lavorare all’interno di queste strutture era certamente più agevole per le crocerossine, ma non privo di rischi: spesso questi ospedali si trovavano vicini ai luoghi di guerra ed erano dunque soggetti a bombardamenti (nel corso del conflitto vi furono violazioni nei confronti della neutralità delle ambulanze e del personale sanitario, a volte addirittura catturato e ucciso: tre infermiere italiane – Maria Andina, Maria Antonietta Clerici e Maria Concetta Chludzinska – vennero recluse nel campo di concentramento di Katzenau poiché rifiutarono di abbandonare il loro posto di lavoro dopo la disfatta di Caporetto, rimanendo accanto ai feriti non più trasportabili, per assicurare loro assistenza e conforto fino alla fine; ricevettero poi la prestigiosa medaglia “Florence Nightingale”) e altrettanto spesso in essi le condizioni igieniche erano insufficienti e aggravate dalla presenza di topi e pidocchi. Le prime crocerossine arrivarono sul Carso e in Valsugana nel maggio del 1915, al momento dell’ingresso dell’Italia in guerra; secondo le stime più recenti furono circa 1090 quelle impegnate direttamente al fronte, mentre più di 10000 quelle dislocate negli ospedali territoriali, nei convalescenziari, nei treni e navi-ospedale. Alcuni dati parlano di un soccorso assicurato a circa due milioni di persone, tra feriti, malati e prestazioni di semplici cure ambulatoriali. Una famosa giornalista dell’epoca, Paola Baronchelli Grosson, racconta in un articolo pubblicato su “Scena illustrata” nell’ottobre del 1915 lo straordinario impegno della Croce Rossa nei vari paesi impegnati nel conflitto: “La parte della donna, nella Croce Rossa, è grande: e tale l’hanno riconosciuta i governi che non hanno esitato a ricorrere ufficialmente al suo aiuto, ad arruolarla come un milite dal quale si esige carità ed assistenza bensì, ma anche disciplina, silenzio, infaticabilità e prontezza. Nella guerra colossale che si combatte da quindici mesi, le infermiere della Croce Rossa hanno potuto dare intera la misura sia del loro valore, sia della loro utilità indiscutibile”. Assistenza, supporto morale, controllo dei farmaci in dotazione, preparazione dei ferri chirurgici, somministrazione delle terapie, riabilitazione: molteplici gli incarichi assegnati a questo esercito di carità. Mi soffermo ora su alcune figure di rilievo che hanno colpito particolarmente la mia attenzione. Sita Meyer Camperio Fonda nel 1908 la prima scuola ambulanza della Croce Rossa e nel 1912 del primo ospedale-scuola “Principessa Jolanda” nel quale si sono formate moltissime crocerossine. Impegnata al fronte durante la prima guerra mondiale, a partire dal 1917, stende un diario per raccontare le esperienze vissute durante il conflitto. In particolare descrive il suo arrivo a Sagrado Ospedaletto 75, che era appena stato bombardato: “tutte le ferite sono gravissime nell’ospedale più avanzato del Carso, ove si accolgono quelli che non possono tornare indietro”. Il suo diario termine con il 28 ottobre 1917 dal momento che, con la disfatta di Caporetto, l’Ospedale viene sgomberato; pochi giorni prima Sita annota che: “il momento è gravissimo! Il colonnello Perego viene a dare ordini tassativi per lo sgombero dell’Ospedale con tutti i feriti, gravi e non gravi: le infermiere debbono tornare alla loro base; i militi saranno caricati sulle auto-lettighe con i feriti. Tira un’aria cupa e spaventosa, un’atmosfera di morte; nessuno parla… i feriti, nei loro lettini, aspettano,
Leggi di piúTra i materiali del nostro Museo Didattico Digitale sono presenti le fotografie di alcune pagelle scolastiche, per la maggior parte relative alle scuole elementari, che risultano essere dei preziosi documenti in grado di fornire numerose informazioni di natura storica, sociale e culturale. È sufficiente osservare con attenzione i dettagli delle copertine e le scelte grafiche e scorrere l’elenco delle materie insegnate per tornare indietro nel tempo e notare elementi riconducibili a specifiche fasi della nostra storia. Abbiamo a disposizione le immagini di ventidue pagelle scolastiche, condivise con noi dalla responsabile dell’aula di storia “Riccardo Techel” allestita presso la scuola media G. A. Bossi di Busto Arsizio, dove sono perfettamente conservate e messe a disposizione degli studenti per approfondimenti e ricerche. Tali documenti coprono l’arco temporale che si estende dal 1913-14 al 1946-47. La pagella più antica a nostra disposizione apparteneva a Giovanni Crespi di Giovanni, nato a Busto Arsizio, all’epoca in provincia di Milano, il 2 giugno del 1899, impiegato di professione; egli frequenta la scuola tecnica pareggiata “Edmondo de Amicis” di Busto dal 13 ottobre del 1913 e giunge al diploma il 17 agosto dell’anno successivo (valutazione 80/120). La pagella che conserviamo è relativa alla classe terza, anno scolastico 1913-1914; nell’elenco delle materie di insegnamento risultano presenti: calligrafia, computisteria (scritto e orale), disegno, geografia, lingua francese (scritto e orale), lingua italiana (scritto e orale), matematica (scritto e orale), diritti e doveri, scienze naturali, storia nazionale, educazione fisica. Per ogni materia viene indicato il voto di condotta e quello di profitto e l’anno scolastico risulta diviso in tre trimestri. Dal punto di vista grafico non sono presenti immagini particolari, ma appare sulla copertina e in prima pagina, in alto e al centro, lo stemma del Regno d’Italia. Il documento è ben conservato, sebbene il colore turchese della copertina sia leggermente sbiadito ai bordi. Lo stemma del Regno d’Italia appare anche sulla copertina della pagella scolastica di Carla Pozzi di Pietro, nata a Busto Arsizio il 21 marzo del 1921, iscritta alla classe femminile I° A della scuola elementare A. Manzoni di Busto Arsizio (provincia di Varese) nell’anno scolastico 1927-1928. Lo stemma è in questo caso differente rispetto a quello del precedente documento: si è ormai svolta la marca su Roma, Mussolini si è già insediato al potere da alcuni anni e per questo nello stemma compare ai lati l’immagine del fascio e, accanto alla data in numeri arabi, compare l’indicazione dell’anno fascista, in questo caso il sesto. Si può notare anche la presenza dell’insegnamento di religione nelle materie impartite agli studenti, insieme a canto, disegno e bella scrittura, lettura espressiva e recitazione, ortografia, lettura ed esercizi di lingua italiana, aritmetica e contabilità, nozioni varie, geografia, storia, scienze naturali, fisica e igiene, nozioni di diritto ed economia, lavori donneschi e manuali, condotta, rispetto alla pulizia. Il documento è perfettamente conservato. Della stessa studentessa conserviamo anche le pagelle degli anni scolastici 1929-1930 e 1931-1932. Qui la grafica è notevolmente diversa Qui la grafica è notevolmente diversa rispetto agli anni precedenti: scompare del tutto lo stemma del Regno d’Italia nella copertina che, in entrambe le pagelle (differenti tra loro solo per il colore dello sfondo), è occupata quasi totalmente dall’immagine di fasci disposti in maniera piramidale e orizzontale; in basso al centro compare la dicitura “Ministero della educazione nazionale” e, a seguire, “Opera Nazionale Balilla”; aprendo la pagella troviamo invece lo stemma del Regno d’Italia con accanto l’immagine dei fasci e il logo stilizzato dell’ONB. Nei dati anagrafici è presente lo spazio per indicare il numero della tessera di iscrizione della studentessa all’ONB oltre che l’indicazione dell’anno fascista (VIII e X). Analizzando poi le pagelle scolastiche delle studentesse Laura e Lidia Cesca, figlie dell’artigiano Romeo Cesca e di Anna Steffé, nate a Trieste l’una nel ’30 e l’altra nel ’32, frequentanti la scuola elementare “Aldo Padoa”, notiamo come ormai il fascismo abbia completamente pervaso con la sua simbologia e con i suoi precetti il mondo della scuola: nelle copertine delle pagelle dal 1936-1937 al 1940-1941 compaiono balilla in marcia militare, libri e moschetti, fucili e fasci, immagini della vittoria alata su uno sfondo di guerra e industrie, navi e aerei militari, carte geografiche dell’impero italiano prima e dopo Mussolini, insieme alle diciture PNF, Gioventù Italiana del Littorio, ONB e all’imperative “vincere”; armi, aquile e M stilizzate corredano queste copertine, con l’indicazione costante dell’anno fascista in cui ci si trova. La presenza frequente di immagini che rimandano alla guerra (fucili, moschetti, spade ecc.) testimonia chiaramente il militarismo insito nella cultura fascista e associato anche al mondo dei bambini, effettivamente allevati attraverso un’educazione di tipo paramilitare. Colpisce come anche le pagelle scolastiche delle scuole elementari divengano fondamentalmente ulteriori strumenti propagandistici del regime. Tra le materie troviamo inserite anche “nozioni varie e cultura fascista” e “storia e cultura fascista”, come discipline assolutamente indispensabili per la formazione e la crescita delle future generazioni di fascisti. Nelle pagelle degli anni 1945-1946 e 1946-1947, a conflitto concluso, si nota come questi documenti rechino in alto l’indicazione “amministrazione del governo militare alleato della Venezia Giulia”, a testimonianza degli eventi storico-politici nel frattempo intercorsi: inutile evidenziare come ogni aspetto grafico relativo al fascismo sia totalmente rimosso, così come le discipline sopracitate. Segnaliamo ancora un dato: su alcune delle pagelle compare la dicitura “esente da bollo” poiché in effetti le due studentesse erano figlie di un invalido di guerra, Romeo Cesca, rimasto ferito durante la spedizione fiumana con D’Annunzio. Tutti i documenti della famiglia Cesca sono conservati in ottimo stato. Giulia Mazzone e Roberto Cersosimo, cl. V A Istituto Professionale
Leggi di piúQuesto manifesto è stato prodotto dallo Stato americano nel 1917, in concomitanza con l’entrata in guerra nel primo conflitto mondiale. Esprime un messaggio chiaro e diretto mediante un’immagine e un testo sottostante. Invitando l’America tutta a prendere una posizione per quanto concerne il conflitto mondiale in corso, lo Stato esorta i cittadini ad arruolarsi nell’esercito statunitense. La scritta “I want you for U.S. Army” ribadisce con forza la necessità di una mobilitazione massiva della popolazione maschile del paese. Ed è proprio l’austero Zio Sam, rappresentazione personificata degli stessi Stati Uniti fin dall’epoca della Guerra di secessione, abbigliato secondo tradizione con elementi che rimandano alla bandiera americana (tra cui un cappello a cilindro con stelle bianche su campo blu), a puntare il dito verso l’osservatore, facendolo sentire l’effettivo destinatario del messaggio. Tutti i colori presenti nel manifesto rimandano alla bandiera statunitense: nell’immagine di Uncle Sam, nella scritta sottostante, nei bordi del poster. Il manifesto è stato realizzato da James Montgomery Flagg che ha utilizzato il suo stesso volto, in parte modificato, per ritrarre lo Zio Sam, e si è servito del veterano Walter Botts come modello. Flagg, nel corso del conflitto, produsse ben 46 manifesti di propaganda per il governo americano, molti dei quali includevano lo Zio Sam. L’autore si è ispirato, in questo caso, ad un manifesto del 1914 realizzato in Inghilterra per il reclutamento dei soldati in cui veniva ritratto il generale Horatio Herbert Kitchener che, con l’indice puntato, invitava gli inglese ad arruolarsi. La figura di uncle Sam verrà utilizzata per reclutare soldati anche nella Seconda Guerra Mondiale. R. Selmi – cl. V A Istituto Professionale
Leggi di piúIl manifesto, composto da immagine e testo, è stato realizzato da Lloyd Meyers nel 1916 per l’Esercito Britannico allo scopo di richiamare in patria, per prendere servizio sotto le armi, uomini inglesi che erano migrati in America negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della guerra. Il target di riferimento è dunque proprio quello di giovani uomini di origini britanniche trasferitisi oltreoceano. L’immagine veicola chiaramente il messaggio: un soldato inglese, rappresentato in divisa e con un’arma in pugno in primo piano, di notevole grandezza, collocato sopra l’immagine di Gran Bretagna e Francia (potenze in effetti alleate durante la Prima guerra mondiale), porge la sua mano destra ad un uomo in abiti civili rappresentato sopra gli Stati Uniti, con l’intento di trascinarlo saldamente verso sé. Il testo “britishers you’re needed” e “come across now” completano verbalmente il messaggio comunicato dalle immagini. A livello spaziale, il soldato è collocato in una posizione più alta rispetto al civile che, con la sua gamba destra piegata in avanti come a voler compiere un passo, sembra accettare la richiesta degli inglesi. Questo secondo personaggio simboleggia tutta la sua categoria ed è rappresentato, non a caso, con abiti blu, bianchi e rossi (cravatta) che richiamano la bandiera statunitense. Tra i due si interpone l’azzurro intenso dell’oceano Atlantico, che sarà teatro poco tempo dopo, al largo delle coste europee dell’affondamento del transatlantico Lusitania, che velocizzerà la scelta americana di prendere parte al conflitto direttamente. Agnese Rimoldi – cl. V A Istituto Professionale
Leggi di piúIl messaggio di questa immagine propagandistica è rivolto alle potenze europee opposte ad Austria e Germania e ai cittadini britannici nell’intento di comunicare un’immagine disumanizzata del nemico tedesco che aveva scatenato la Prima guerra mondiale. L’immagine è stata dunque evidentemente prodotta nel corso della prima fase del conflitto. Il suo fine è quello di rappresentare i tedeschi in forma “bestializzata”: essi vengono ritratti come animali, nello specifico come maiali, operando una scelta molto efficace dal punto di vista comunicativo. I maiali sono associati, nell’immaginario comune, alla sporcizia, al fango e sono oltretutto onnivori, possono nutrirsi perfino della carne e delle ossa di un uomo. Della loro natura umana restano nell’immagine soltanto elementi accessori come gli occhiali, il tipico copricapo tedesco e un gagliardetto appeso alla coda del maiale in primo piano. Essi stanno aggredendo una figura femminile che giace a terra in una pozza di sangue; ella rappresenta l’infermiera britannica Edit Cavell, divenuta personaggio ricorrente nella propaganda britannica, la quale aveva aiutato entrambe le fazioni militari in Belgio e che perciò era stata giustiziata. Le dimensioni e la posizione dei maiali rispetto alla figura umana rendono l’idea dell’oppressione tedesca sull’Inghilterra e sulle altre potenze europee e la presenza stessa dell’infermiera uccisa rimanda al tema della partecipazione femminile al primo conflitto mondiale che in molti casi vede le donne propriamente impegnate nel soccorso ai militari feriti. Ma nella loro stessa natura questi maiali rivelano un altro messaggio importante: di questi animali, com’è noto, si può mangiare praticamente ogni parte. Dunque il nemico tedesco, per quanto attualmente incombente, può essere disintegrato dalla potenza militare dell’Intesa. Le scelta dei colori vede un rosa predominante nei maiali, il bianco nella figura dell’infermiera (sia il suo viso che il suo abito appaiono candidi, ad esprimere innocenza) ed il rosso del suo sangue versato a terra. L’autore di questa immagine altamente evocativa è Louis Raemaekers, un disegnatore e vignettista olandese noto per il suo pungente umorismo anti-tedesco. Vito Pagano – 5° A
Leggi di piúQuesto manifesto, datato 1917, è stato realizzato da R. H. Parteous su richiesta del governo americano per promuovere la raccolta di fondi a sostegno della guerra. Al centro dell’immagine notiamo la presenza di una donna abbigliata secondo la moda del tempo, in piedi davanti alla bandiera statunitense, sullo sfondo cupo e inquietante di un oceano travolto dalla tempesta nel quale si riconoscono sagome di soldati uccisi e, in lontananza, i fuochi della battaglia. Soffermandosi sulla donna vediamo che ha le braccia aperte e tese in avanti, come a voler aiutare e sostenere qualcuno. Il suo volto è disteso, sorridente e rassicurante e sopra di lei la scritta “Women! Help America’s sons win the war” completa il messaggio: il manifesto infatti si rivolge proprio alle donne chiedendo loro di fare la propria parte nello sforzo bellico americano per supportare i soldati, in qualche modo figli di tutte le donne del paese, a sconfiggere il nemico. Alludere ai soldati come a dei figli amplifica l’effetto del messaggio perché fa leva su di un’emozione che certamente poteva convincere le donne: il senso di responsabilità per il destino dei figli della nazione impegnati nel secondo conflitto mondiale. Nella parte più in basso del manifesto troviamo chiarita la natura di questo aiuto richiesto alle donne: dovrebbero infatti acquistare alcuni titoli di Stato per finanziare economicamente la guerra. La data 1917 e la natura del messaggio ci riportano al momento dell’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale accanto alle forze dell’Intesa, a seguito dell’affondamento del transatlantico Lusitania. Valentina Lamesta – cl. V A Istituto Professionale
Leggi di piúQuesto manifesto, a differenza di molti altri dell’epoca che miravano ad arruolare sempre più soldati da inviare al fronte, si pone l’obiettivo di esortare la popolazione italiana a sottoscrivere prestiti indispensabili allo Stato per sostenere i costi bellici, mediante un’illustrazione e un testo scritto. Nell’immagine, realizzata da Ugo Finozzi, appare un soldato italiano pronto all’azione, che si protende verso la guerra, armato di una baionetta, con un viso serio e coraggioso; la sua figura è collocata su una sorta di piedistallo grigio che fa da sfondo alla scritta, come se ancor prima del suo sacrificio egli stesso possa considerarsi un eroico monumenti ai caduti di guerra. Egli è rappresentato su uno sfondo che rimanda all’immagine dei fuochi della battaglia, alle fiamme, agli scontri militari. Una donna alle sue spalle sembra spingerlo all’azione. L’immagine comunica dunque che lo sforzo ed il sacrificio dei soldati italiani è volto alla protezione della popolazione civile, rappresentata dalla donna e dal bambino che tiene tra le braccia, le cui espressioni trasmettono orrore e paura. Ma affinché il soldato possa realmente “cacciare via” il nemico austro-tedesco è necessario che tutto il popolo italiano acconsenta ai prestiti di guerra, così da garantire allo Stato italiano il necessario finanziamento. Ciò ci rimanda ad un aspetto caratteristico della Prima guerra mondiale, ovvero alla mobilitazione generale della popolazione civile per il conflitto: in effetti, mentre il soldato si troverà in trincea sarà compito della donna sostituirlo nelle sue mansioni lavorative. Si notano con evidenza i colori della bandiera d’Italia presenti. M. Del Vita – cl. V A
Leggi di piúIn questo manifesto propagandistico inglese, che unisce immagine e testo, vediamo rappresentato Lord Horatio Herbert Kitchener, Segretario di Stato per il conflitto, eroe di guerra e fine stratega, che, indossando il copricapo da feldmaresciallo e presentandosi con i mustacchi tipici del look maschile della sua generazione, con sguardo serio, deciso e sopracciglia aggrottate punta il dito verso lo spettatore chiamandolo al suo dovere: partecipare alla guerra, evidentemente arruolandosi nell’esercito britannico, per sostenere il proprio paese. Il target di riferimento è certamente da individuarsi nei giovani ragazzi britannici, ma l’affermazione “your country needs you” potrebbe anche essere rivolta a tutta quella popolazione civile che partecipa al conflitto senza tuttavia trovarsi al fronte: il riferimento potrebbe essere dunque ad una necessaria mobilitazione sociale generale al fine di sostenere lo sforzo bellico. Questa illustrazione è stata prodotta dall’artista Alfred Leete ed è stata pubblicata per la prima volta sulla copertina del settimanale London Opinion, in data 5 settembre 1914. Nel giro di breve tempo, per volere del Comitato Parlamentare di Reclutamento, tutte le vie inglesi vennero tappezzate con manifesti che riportavano proprio questa immagine, al fine di ottenere l’arruolamento di un numero elevato di soldati volontari: lo spirito patriottico e la campagna propagandistica messa in atto consentirono di reclutare, nel solo primo mese del conflitto, circa 500.000 uomini. M. Beltrame – cl. V A
Leggi di piúIl manifesto qui rappresentato è stato prodotto dal sistema propagandistico britannico nel 1915, durante il secondo anno di guerra, ed evidenzia la necessità del governo di arruolare il maggior numero di soldati possibile da unire all’esercito impegnato in quella che è stata una logorante guerra di posizione. Il manifesto unisce testo “step into your place”, letteralmente “prendi il tuo posto”, e un’immagine fortemente comunicativa di una lunga fila di giovani uomini inglesi. Questa fila si compone di civili (in primo piano), rappresentati con abbigliamento e oggetti tipici di varie occupazioni lavorative e di diverse classi sociali (sono presenti borghesi, aristocratici, semplici operai, un giudice, un intellettuale ecc) e di soldati, rappresentati in prospettiva in una linea praticamente infinita, che pare non concludersi al bordo del manifesto. I messaggi veicolati da questo manifesto di forte impatto sono molteplici: da un lato l’invito ai civili ad arruolarsi nelle fila dell’esercito britannico (intento chiaramente espresso nella scritta), una vera e propria necessità per l’Inghilterra che stava fronteggiando il nemico degli imperi centrali; dall’altro lato esprime la necessità di una compartecipazione generale allo sforzo bellico, dal momento che tutti gli uomini, a prescindere dalla classe sociale di appartenenza, dal proprio livello culturale e dal proprio impiego, possono dare un identico contribuito alla causa britannica. In questo senso, l’esercito sembra svolgere un’importante operazione di livellamento sociale, rendendo gli uomini tutti uguali sotto una divisa e di fronte ai rischi della guerra. Si può notare come nella fila non compaia nessuna donna: certamente esse non parteciparono militarmente alla guerra ma ricordiamo che il loro ruolo è stato fondamentale durante il conflitto, in quanto esse sono state infermiere, giornaliste, fotografe e soprattutto grandi lavoratrici in grado di sostituire gli uomini in una varietà di occupazioni lavorative. Francesco Baraté – cl. 5 A
Leggi di piúDescrizione e informazioni sulle leggi: Dopo il discorso del 3 gennaio 1925, in cui Benito Mussolini si assume la responsabilità del delitto Matteotti, il duce con l’appoggio dello squadrismo e di Vittorio Emanuele III può godere della massima libertà di azione. Proprio in questo periodo tra il 1925 e il 1926 vengono emanate dal governo le cosiddette leggi fascistissime, definite anche leggi eccezionali del fascismo, ispirate dal giurista Alfredo Rocco.Uno degli obbiettivi principali di queste leggi è la progressiva sovrapposizione e fusione tra il fascismo e lo Stato italiano. Per questo motivo nel 1925 viene comunicata la legge numero 2263, essa prevede che il Presidente del Consiglio cambi nome in Capo del Governo e ottenga ampi poteri, come ad esempio quello di veto, e anche che il potere legislativo e quello esecutivo siano ricondotti al Consiglio dei Ministri, svuotando in questo modo il Parlamento della sua reale funzione.Dal punto di vista della società e per il lavoro le leggi prevedono anche la censura su quotidiani e giornali, la proibizione di scioperi e serrate e la possibilità di stipulare contratti collettivi, ovvero un particolare tipo di contratto di lavoro, solo per i sindacati fascisti.Poi in ambito politico vengono istituiti il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, con competenza sui reati contro la sicurezza dello stato, un Collegio giudicante, formato dai membri della milizia e da militari e il ministero della cultura popolare.Per la sicurezza dello stato avviene lo scioglimento di organizzazioni politiche sospettate di antifascismo, l’istituzione del confino per i colpevoli di reati politici e per gli antifascisti e la creazione dell’OVRA, l’acronimo di “opera volontaria di repressione antifascista”, che è la polizia segreta dello stato fascista a partire dal 1927.Invece per l’istruzione tutti gli insegnanti sono obbligati ad iscriversi al Partito Nazionale Fascista ed è presente l’obbligo di usare un solo libro fascista per la scuola.E infine queste leggi portarono anche alla trasformazione del Gran Consiglio del Fascismo nell’organo supremo dello Stato, abolendo in questo modo ogni restante illusione di democrazia e di suffragio universale e conducendo lo stato fascista al potere in ogni ambito. scritto da Lorenzo Carabelli Bibliografia e sitografia:Storia contemporanea, Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto https://www.treccani.it/enciclopedia/fascismo_%28Enciclopedia-dei-ragazzi%29/ https://intellettualinfuga.fupress.com/contenuti/232 https://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_fascistissime curato dal prof. Tomas Cipriani
Leggi di piúIl Secondo libro del fascista fu pubblicato nel 1939 per la prima volta e al suo interno possiamo notare come l’argomento principale sia la razza, volendo instillare negli studenti questa visione della realtà. Vedendo come è strutturato il testo e cosa sostiene, è evidente come l’opera di propaganda fascista volesse plasmare la mentalità e i comportamenti degli italiani in chiave razzista e antisemita. Il libro comincia affermando che la specie umana è unica ma che in essa si distinguono le razze. Per definire cosa sia una razza, il testo sostiene che la razza è un gruppo umano i cui individui hanno dei caratteri simili, come per esempio il colore della pelle, le attitudini, la forma del cranio ecc. Data questa definizione, si dice che in Italia erano presenti stirpi di razza bianca, chiamate razze ariane, che discendevano da famiglie etniche molto nobili e apparivano legate nello sviluppo storico della civiltà, sostenendo che fosse documentato come nella storia i popoli di maggior civiltà fossero stati quelli appartenenti a tale razza, compresa la civiltà attuale. Dopo aver esaltato la razza ariana, il libro afferma che ci siano situazioni di pericolo o di decadenza e, pertanto, essa deve essere difesa sia in senso fisico che in senso spirituale, così da conservare la sua purezza e la sua capacità di dominio e ascesa. A tal riguardo, viene propagandato che il fascismo volesse portare l’unità italiana al suo massimo grado di efficienza e questo poteva avvenire soltanto rafforzando e purificando la razza. Viene messo in evidenza, in seguito, il pensiero razzista di Mussolini fin dagli albori del fascismo. Parlando, poi, di razze non ariane, il libro si concentra sugli ebrei, affermando sono presenti in tutto il mondo. Gli ebrei vengono chiamati semiti, si dice, perché sono una delle stirpi discendenti da Sem, che è il figlio di Noè. Le loro caratteristiche fisiche, si sostiene, li renderebbero distinguibili dalle altre persone. Sempre nel testo, vengono ricordate le leggi razziali, pubblicate nel 1938, che avrebbero avuto come obiettivo quello di preservare la razza italiana e, inoltre, contrastare il presunto complotto internazionale ordito dalla comunità ebraica ai danni dello stato fascista. È evidente, pertanto, come la propaganda razzista e antisemita sia stata uno dei punti cardine in quella che, nell’ottica di Mussolini, doveva essere la creazione di un nuovo tipo italiano. scritto da Veronica Basilico curato dal prof. Tomas Cipriani
Leggi di piúLa carta lavoro fu deliberata nel 21 aprile 1927 dal Gran consiglio del fascismo. Non fu varata in una nata casuale, in quanto è simbolica, poiché fu fatta coincidere con il Natale di Roma. Non è un semplice documento legislativo ma è anche l’enunciazione dei principi fondamentali del nuovo stato, permettendo la costituzione di un nuovo modo di intendere l’assetto giuridico. In quanto è alternativo al liberismo e al socialismo, creando una terza via. Una via data dalla fusione del passato socialista, con il riconoscimento della forma del duce e perciò la subordinazione allo stato, con il compito di regolare e superare il conflitto sociale.Il documento è costituito da 30 dichiarazioni con 4 capi: Dallo stato corporativo e della sua organizzazione; Dal contratto collettivo di lavoro e delle garanzie del lavoro; degli uffici di collocamento; Dalla previdenza, Dell’assistenza dell’educazione e dell’istruzione. Le parole chiave della carta sono: Nazione, Stato, Lavoratore e Sindacato. Infatti nel documento vengono sanciti la subordinazione dell’economia alla politica perciò il consequenziale controllo della supremazia sulla società, Il lavoro è un dovere sociale. Viene sancita l’iniziativa privata. Il prestatore d’opera, tecnico, impiegato ed operaio è un collaboratore attivo dell’impresa economica. Viene stabilito il compito di rappresentanza dei sindacati sulle categorie e interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro anche di fronte lo stato. Lo stato corporativo non crea ma riconosce l’organizzazione professionale di contrattazione collettiva. La nazione viene descritta coma un unità morale, politica ed economica. Tale documento segna ufficialmente la nascita dello stato corporativo, ovvero la terza via. Il corporativismo è una dottrina politico-sociale che realizza il principio della collaborazione tra le classi e le categorie sociali. Infatti il fine del documento è quello di affidare alle corporazioni il compito di disciplinare e ordinare gli aspetti dell’attività produttiva. Le corporazioni sono delle organizzazioni specifiche per ogni settore produttivo e sono controllate dallo stato. La carta del lavoro di Mussolini fu abrogata nel 1944. scritto da Marta Ghellere curato dal prof. Tomas Cipriani
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